mercoledì 12 gennaio 2011

La Pianificazione Strategica. 4. Il ruolo dei "policy maker" nella gestione della programmazione socio-economica.

Si è detto in precedenza che una più attuale e condivisa definizione di pianificazione strategica deve tener conto di quanto altro è stato fatto dagli anni ’90 fino ad oggi, soprattutto per la possibilità di implementare la metodologia di base con le esperienze di programmazione e di pianificazione. Infatti, nelle esperienze di maggior successo per la pianificazione strategica, il metodo operativo adottato non è stato solo quello di guardare solamente alla pianificazione esclusivamente impostata in chiave "architettonica, urbanistica e territoriale", ma è stato bensì quello di guardare anche alla "tutela ambientale" ed alla "programmazione socioeconomica".

Il fatto di affiancare la questione della tutela ambientale e le attività di programmazione socioeconomica nell’ambito di un processo di pianificazione strategica è stato perciò un elemento di successo ed in ciò ha contribuito senza dubbio il coinvolgimento di nuove figure professionali nei gruppi di lavoro, tra i quali spicca quella del "policy maker", che si occupa di "policy making" e di "policy analysing".

In genere, tra le attività più tipiche che un policy maker svolge vi sono quelle legate all'esecuzione di piani, politiche, programmi, progetti, attività di cooperazione e di organizzazione (elaborazione e formulazione, attuazione e implementazione, finalizzazione e attuazione, valutazione e monitoraggio, revisione ed adattamento, partecipazione e diffusione delle informazioni). Tuttavia, nell’ambito della pianificazione strategica, i policy maker sono stati usati prevalentemente per preparare una base culturale comune e condivisa a tutti gli operatori, attori, portatori di interessi e rappresentanti istituzionali, per poi poter gestire al meglio quei processi e percorsi di governance e di partnership, per gestire la partecipazione, per mediare tra i diversi ambiti di policy (sociale, economico, ambientale, territoriale, politico, istituzionale), per la valutazione dei risultati e per la definizione degli obiettivi (operativi, specifici e globali).

Ma dove il policy maker sembra essere riuscito meglio è stato nella gestione dei processi di programmazione socioeconomica; questo perché sono molteplici e variegati i riferimenti culturali che sono alla base della formazione didattico-professionale di un policy maker.

Sempre più spesso, il policy maker tende ad essere paragonato ad un "metodologo" per le sue molteplici conoscenze e per il fatto di riuscire ad articolare molto bene la sua attività in fasi, che in genere sono:

- partecipazione degli operatori;

- analisi della problematica, strutturazione del problema e analisi del suo ambito/contesto;

- selezione degli obiettivi e predispone adeguati indicatori per valutarne il loro conseguimento;

- determinazione delle scelte e loro implementazione;

- distinzione dei risultati in realizzazioni quantitative, esiti ed effetti, impatti ed utilità;

- valutazione i risultati in base ai criteri di Attinenza/Pertinenza/Rilevanza, Efficienza, Efficacia, Utilità/Sostenibilità, Coerenza Interna ed Esterna;

- creazione di un efficace sistema di comunicazione per l’accesso alle informazioni ed alla conoscenza;

- valutazione dei risultati;

- adattamento e modifica delle scelte di pianificazione, sulla base delle valutazioni eseguite in precedenza.

Ma più di ogni altra cosa, a determinare il successo dei policy maker nell'ambito della programmazione socioeconomica è stata quella pluralità di schemi operativi cui si rifanno i policy maker: qui, a titolo semlificativo citiamo quelli che io chiamo i Cicly di Policy, più specificatamente adottati per il monitoraggio e la valutazione dei processi e per la partecipazione.

Ovviamente, a determinare il successo dei policy maker concorrono anche tutta un'altra serie di fattori che meritano di essere approfonditi e che, prima o poi, saranno oggetto di futura trattazione.

Pietro perrucci

La pianificazione strategica. 3. La Partecipazione

Di tutti gli elementi chiave propri della pianificazione strategica quello più importante resta "la partecipazione, concreta e operativa, dei cittadini al processo di pianificazione". Trattasi, a mio avviso, dell’unico modalità per realizzare, in concreto, quella che altrimenti sarebbe un'idea troppo vaga di "interesse pubblico". È quindi necessario (anche se è molto complesso) che, sin dall'inizio, l’unità di pianificazione stabilisca forme di dialogo con tutti i soggetti potenzialmente eliggibili alla partecipazione, in un processo di pianificazione.

Il primo passo da compiere per la partecipazione è quello della individuazione, nella maniera più precisa possibile, di questi soggetti. In diverse esperienze, però, la partecipazione è stata sempre un aspetto del tutto secondario e perciò trascurato; ciononostante, è comunque possibile individuare tra questi soggetti gli "interlocutori naturali" della Unità di pianificazione, rappresentato dai beneficiari di un programma, i "cittadini", i quali intervengono, non solo come potenziali beneficiari, ma anche come soggetti deputati alla costruzione delle scelte anche se non sono beneficiari. A queste categorie, si sono aggiunti spesso anche i "contribuenti", termine che qui viene utilizzato non tanto per indicare chi paga le tasse, quanto per indicare chi effettivamente finanzia i processi da costruire.

da un punto di vista più strettamente metodologico, invece, la partecipazione dei cittadini viene di norma esaminata secondo tre linee di analisi critica: la prima linea prende in considerazione la capacità dei cittadini di cooperare efficacemente al processo; la seconda linea ha per oggetto la capacità dei cittadini di mantenere un interesse elevato nel corso del tempo; la terza linea riguarda la capacità dei cittadini di produrre e mobilitare attenzioni ed interessi anche all'esterno della stessa realizzazione del processo.

Nella ricchissima letteratura esistente sulla partecipazione questi aspetti vengono quasi completamente ignorati; si parla, infatti, di partecipazione dei cittadini facendo riferimento al solo momento elettorale quando, invece, la partecipazione significa la possibilità di tutti i cittadini di concorrere "più o meno direttamente" alla determinazione delle scelte nei vari processi di policy, e questo a prescindere dai diversi sistemi politico elettorali in cui ci si ritrova ad operare ed a prescindere anche dai diversi ruoli che i soggetti acquisiscono per poter partecipare alla realizzazione dei processi di policy, come di seguito evidenziati:
1. le unità di programmazione (Udp) esterne al processo di pianificazione;

2. i soggetti pubblici, anche quelli addetti al supporto infrastrutturale ed energetico;

3. le autorità locali coinvolte nella portata del piano;

4. il pubblico (come singoli individui, come gruppi);

5. le Unità di pianificazione interne al processo di pianificazione e i loro staff tecnici;

6. il governo regionale ed il governo nazionale;

7. i consulenti;

8. le associazioni (consumatori, utenti, movimenti di autotutela, ecc…).


Le modalità di consultazione dei cittadini nella costruzione di un processo possono assumere diverse caratteristiche. Talora può rendersi opportuno consultare un campione rappresentativo dell’intera popolazione in quanto tale; talora, invece, sarà preferibile conoscere l’opinione distinta di particolari porzioni o settori di questa popolazione. In ogni caso, però, le modalità di consultazione, debbono avere un unico obiettivo, e cioè conferire legittimità alle scelte intraprese nell'ambito di un processo pianificatorio. Per questo, tali processi dovrebbero essere molto più spesso "istituzionalizzati" e questo anche per ridurre il grado di incertezza nel prendere le decisioni, nel chiarire gli obiettivi e gli scopi dei processi e nell’estendere il consenso. Come si può capire, l'istituzionalizzazione dei processi ha anche una valenza "strategica", nel senso della possibiità di poter convogliare un "maggiore consenso" verso il conseguimento degli obiettivi.

In ultimo, un'altro aspetto importante della partecipazione riguarda il controllo e la gestione dell'informazione. Si pensi, a quanto importante sia l'informazione per il processo di pianificazione strategica che serve
soprattutto per una più precisa definizione di un sistema di obiettivi, per una migliore la strutturazione di programma e per costruire quella base di conoscenza comune e condivisa.

Pietro Perrucci

La Pianificazione Strategica. 2. Gli elementi chiave

Le quattro definizioni a cui si è fatto col precedente articolo sulla pianificazione strategica, racchiudono da un punto di vista teorico tutti gli elementi utili a definire questo strumento di sviluppo e benché si possa essere d’accordo con quanti sostengono che per giungere a una più attuale e condivisa definizione di pianificazione strategica si deve tener conto di quanto altro è stato fatto finora soprattutto in termini implementazione delle esperienze, ritengo tuttavia che dalle quattro definizioni in precedenza accennate è possibile ricavarne numerosi elementi chiave che oggi fanno parte del concetto di pianificazione strategica universalmente conosciuto.

In quanto strumento caratterizzante delle "politiche volontaristiche", intese queste come espressione della capacità da parte di singole aree territoriali (in particolare città e province) di lanciare politiche e sviluppare strategie, la pianificazione strategica svolge un ruolo di "sistema decisionale", con cui, oltre a prendere decisioni, se ne dà anche attuazione, svolgendo per questo anche una funzione socio-istituzionale e cioè quella di sopperire ai deficit di rappresentanza e quella di alleviare il sovraccarico di attività dei governi locali.

La pianificazione strategica, quindi, è oggi intesa innanzitutto come "forum di partecipazione e di rappresentazione degli interessi locali" e come "forma di organizzazione del governo locale per il coordinamento delle azioni dei vari attori locali e la loro interazione". "La sua missione principale è la ricerca di una maggior coesione dei cittadini e dei loro interessi, con il fine ultimo di costruire consenso su determinate strategie e politiche di sviluppo", mentre il suo compito è l’istituzione di una "rete interna" di attori locali e lo sviluppo di una "rete esterna" di relazioni formali ed informali.

Quindi tra gli elementi chiave della pianificazione strategica vi è "la pluralità dei soggetti pubblici e privati e la complessità dei loro rapporti". Il pianificatore diviene animatore locale che fa il massimo uso dell’intelligenza con la quale i diversi attori perseguono i propri obiettivi (piuttosto che sostituirvisi), svolgendo un ruolo di messa in rete, di indirizzo, di sostegno e di facilitazione dei processi "virtuosi", piuttosto che quello di controllo e guida di tutti i processi.

Ma la pianificazione strategica è soprattutto "uno strumento con il quale si creano le condizioni per il successo delle politiche locali"; grazie alle reti di attori, essa consente la definizione di una visione globale dei problemi locali e delle eventuali proposte risolutive, in una logica di piena trasparenza, ed in genere giunge all’elaborazione di un documento, il piano che pur essendo solo un atto parziale, è sempre il risultato di un processo di interazione, rivolto proprio alla creazione del consenso, alla definizione e alla realizzazione delle strategie di sviluppo locale.

In funzione di ciò, la pianificazione strategica è uno strumento finalizzato:

- alla formazione del consenso su obiettivi strategici;

- alla definizione di una visione strategica dell’area di riferimento attraverso processi di analisi dei problemi, monitoraggio dei risultati, apprendimento collettivo.

Tra le connotazioni operative di questo approccio vanno segnalate:

- il carattere multisettoriale (e non solo territoriale) della pianificazione (a prescindere dal fatto che questa poi si traduca anche in atti di natura urbanistica);

- la natura di medio-lungo periodo degli scenari;

- la necessità di tener conto dei diversi attori locali e nazionali mediante il loro coinvolgimento già nella fase di definizione di piano, sia per quanto riguarda l’individuazione delle linee guida generali che delle singole azioni specifiche;

- la logica reticolare che deve governare il cambiamento, sia per quanto riguarda gli attori coinvolti che l’ambito territoriale di riferimento;

- la necessità di risolvere innumerevoli conflitti nella fase di attuazione del piano e quindi l’esigenza di avere adeguati strumenti di cooperazione e di incentivazione;

- la necessità di operare scelte e di prendere decisioni tenendo conto delle capacità finanziarie, umane e organizzative, in base a processi di natura negoziale nei confronti dei diversi attori pubblici e privati e non in base a criteri di ottimizzazione/razionalizzazione di tipo aziendale;

- la sequenza non necessariamente unidirezionale di specifiche azioni territoriali tra vison e progetti, anzi alcuni casi è possibile prevedere un percorso inverso rispetto all’ordine logico e strategico che prevede in un secondo momento la ricostruzione della vision, delle strategie e degli obiettivi programmatici che contengono e giustificano i progetti emersi. Il processo assume, in questo caso, una duplice connotazione "bottom-up": innanzitutto perché nasce dai fabbisogni e dalle sensibilità dei diversi stakeholders territoriali e in secondo luogo perché derivato dai progetti prim’ancora che dalle strategie.

Ed è proprio questa doppia "emersione dal basso" che la pianificazione strategica, oltre a rappresentare l’intero processo di definizione dello sviluppo locale, può consentire di costruire un elevato grado di coesione e partecipazione.

Pietro Perrucci