lunedì 28 gennaio 2008

La pianificazione strategica. 1. Quattro definizioni

Lo scorso 26 gennaio si è tenuta la presentazione del progetto di pianificazione strategica relativo all'area vasta dei comuni murgiani di Poggiorsini, Gravina in Puglia, Altamura e Santeramo in Colle. In quella sede ho avuto modo di constatate quanto "sconosciuto" fosse il tema della pianificazione strategica anche tra gli stessi addetti ai lavori e per questo ho deciso di pubblicare il terzo capitolo del mio lavoro sullo "sviluppo inclusivo" dedicato appunto alla Pianificazione strategica, con la speranza che possa essere d'aiuto a quanti opereranno in questo contesto. Buona lettura. Pietro Perrucci.




Negli anni ’50 e ’60 la pianificazione regolava l’uso del suolo (zoning) a livello provinciale e comunale (non ancora regionale, dato che l’istituzionalizzazione delle Regioni risale ad un periodo successivo) ed era ispirata a una concezione gerarchica del ruolo delle istituzioni pubbliche, che finiva per essere eccessivamente vincolante per le attività economiche. Le crisi economiche connesse ai primi shock petroliferi degli anni ‘70, l’aumento dei conflitti sociali, i fenomeni di deindustrializzazione, il calo demografico e l’emergere della questione ambientale, fecero sì che i criteri di pianificazione del territorio fino ad allora seguiti non rispondessero più alle esigenze sociali, economiche e del territorio. Fu così che ebbe inizio un radicale cambiamento nei processi di formulazione delle decisioni a livello regionale e locale, costituito dal passaggio da una pianificazione territoriale di stampo vincolistico ad una pianificazione di tipo più socioeconomico e territoriale (ovvero di tipo strategico), che si concluse nel corso degli anni ’90 con le prime formulazioni pratiche e teoriche.
Però, già nel decennio precedente, si erano registrate delle tendenze "deregolative" in cui le istituzioni tentarono di ridurre le interferenze con il funzionamento del mercato, così gli anni ’80 costituirono quella fase intermedia nella quale vi fu una ripresa dei "localismi" e, con essa, la crescita della competizione tra aree territoriali, la negoziazione delle azioni dei governi locali, la verifica della realizzabilità dei progetti, fino alla messa in rete degli attori e alla rappresentazione dei loro interessi in sedi istituzionali in forme organizzate e reticolari. E fu proprio in conseguenza di tutto ciò che si cominciò sia a parlare di "pianificazione strategica", sia ad andare alla ricerca delle sue possibili definizioni.
Si incominciò, così, a guardare all’estero, dove si parlava di pianificazione strategica già dagli anni ’60: dalle analisi sugli studi eseguiti fino a quel momento fu possibile individuare almeno quattro definizioni di pianificazione strategica, risalenti ovviamente a prima degli anni ’90, che erano tutte importanti da un punto di vista teorico perché contribuivano a definire il senso ed il significato di questo strumento di sviluppo.
La prima di queste definizioni è da farsi risalire alla legge urbanistica inglese del 1968, in cui si effettuò la distinzione tra piani strutturali e piani locali: i primi contenevano le linee di indirizzo della pianificazione territoriale con riferimento allo sviluppo socioeconomico, ai trasporti, alle comunicazione e agli insediamenti produttivi e abitativi; i secondi, invece, definivano semplicemente gli usi del suolo. In questo contesto, tutte le visioni, tutte le scelte tutte le decisioni, tutte le politiche e tutte le azioni intraprese, coordinavano gli obiettivi dei due tipi di piani (strutturali e locali) con le modalità con cui realizzarli e per questo aspetto venivano definite "strategiche".
La seconda definizione fu quella statunitense propria di quel tipo di pianificazione territoriale dalla "Corporate Planning", risalente agli anni ‘80, che si basava su quattro elementi distintivi:
1) il campo di applicazione della pianificazione strategica, in origine rappresentato da un’organizzazione o una grande impresa, si estende progressivamente anche alla gestione di ambiti socio-economico-territoriali;
2) il suo obiettivo è il miglioramento non solo di tipo "organizzativo", ma anche "performativo", (ovvero dei risultati conseguiti), proprio come nella pianificazione strategica inglese;
3) l’ente che doveva promuovere la pianificazione strategica doveva sapersi adattare all’ambiente ed al contesto operativo ed essere perciò selettivo nelle scelte e nelle azioni;
4) il processo di pianificazione doveva essere costruito sulla base di un accordo tra gli attori locali e pertanto, agli "stakeholders" (politici, amministratori pubblici, attori privati, imprese leader, cittadini singoli e riuniti in comitati) veniva riconosciuto un ruolo centrale nella definizione delle strategie attraverso processi negoziali.
La terza definizione fu quella proposta dall’Institute for Operational Research di Coventry, per il quale la pianificazione è un processo decisionale in condizioni di incertezza, dal momento che le scelte sono fatte tra possibili percorsi d’azione alternativi, sulla base delle loro future implicazioni. In questo ambito, ogni scelta diviene un processo di pianificazione strategica anche perché la selezione delle azioni è fatta dopo la formulazione e la comparazione di possibili soluzioni, entro un vasto campo di decisioni relative a situazioni anticipate o attuali. Di questa terza definizione è interessante notare che, pur essendo stata elaborata negli anni ’70, si presenta essere più ampia sotto l’aspetto della partecipazione al processo decisionale rispetto alla seconda definizione che era degli anni ’80, e l’elemento "strategico" di questo modello di pianificazione si identifica in un "modello di dialogo", ovvero di un confronto continuo tra le istituzioni pubbliche locali e la collettività, che rende implicito un meccanismo di apprendimento, in base al quale il decisore è in grado di incrementare e migliorare le possibilità di risposta agli stimoli provenienti dall’ambiente in cui si interviene.
La quarta definizione che concorre a definire cos’è la pianificazione strategica è quella elaborata dal sociologo Charles E. Lindblom, il quale asserì che la pianificazione strategica, per effetto della partecipazione di numerosi attori nella sua definizione, non poteva essere teorizzata in termini assoluti, ma occorreva adattarla a ogni singolo contesto. In conseguenza di ciò, egli sostenne che:
- "… non è opportuno predisporre soluzioni analitiche, ma occorre lasciarle all’interazione sociale e alla negoziazione…";
- "… i pianificatori partecipano al processo sociale in cui sono chiamati per fornire una pluralità di soluzioni e modalità di approccio e azione…";
- "… nel corso del processo di pianificazione strategica deve essere possibile stimare gli effetti di ciò che si vuole realizzare e questi effetti devono essere ben distinguibili dagli effetti generati dall’adozione di altri piani, politiche, programmi e progetti…".

Pietro Perrucci