giovedì 21 febbraio 2008

L'illusione del marketing territoriale nello sviluppo locale

Nel ringraziare quanti mi hanno richiesto l'articolo, dico subito che non mi sento di condividere l'entusiasmo mostrato da altri in merito alla utilità del Marketing Territoriale. Anzi, la storia dello sviluppo locale degli ultimi 15 anni in Italia ha registrato una sorta di effetto boomerang, nel senso che dopo averlo molto enfatizzato come moderno ed efficace strumento strategico di sviluppo locale, gli effetti del suo utilizzo sono stati negativi per tutte le economie locali del nostro paese, al punto da ritorcersi contro la stessa economia nazionale. Ed è per questo che io parlo oggi di illusione del Marketing Territoriale ed in questa sede ne spiego i motivi.
A causa della globalizzazione, nella prima metà degli anni ’90 ci fu una forte accelerazione delle dinamiche di localizzazione e di delocalizzazione delle imprese da un paese ad un altro, alla ricerca di differenziali competitivi necessari per acquisire quei vantaggi necessari a determinare posizioni di primato nel mercato globale.
In brevissimo tempo, l’attrazione ed il mantenimento degli investimenti produttivi sul territorio divenne uno dei temi più importanti delle politiche di sviluppo locale e socioeconomico in generale, al punto da modificare profondamente le politiche e gli interventi, tanto degli enti locali, quanto del governo centrale.
Tematiche fino ad allora quasi ignorate, come la qualità ambientale, l’organizzazione territoriale e la programmazione del territorio, divennero ben presto questioni centrali di un sentito dibattito tra gli economisti, sociologi e pianificatori, i quali fecero immediatamente emergere la necessità di operare un ammodernamento degli enti locali affinchè questi potessero usare al meglio molti strumenti di programmazione negoziata, tra i quali vi era anche il Marketing Territoriale.
La riforma della Pubblica Amministrazione italiana (conosciuta come riforma Bassanini) e la messa in atto strategie coalizionali tra imprenditori (partnership) e tra enti pubblici (governance) per attrarre investimenti, divennero ben presto oggetto di grande attenzione accademica e fu così che nacque il Marketing Territoriale.
Sul piano teorico, il Marketing Territoriale prendeva corpo attraverso la trasposizione di teorie, metodologie e tecniche del marketing e della comunicazione; sul piano pratico, si concretizzò in un insieme di attività di studio e di ricerca, finalizzate alla promozione di un territorio, affinché questo riuscisse ad attrarre investimenti e nuove imprese (soprattutto internazionali), creare nuova occupazione e generare così nuovi processi di sviluppo socioeconomico.
Per questo, il Marketing Territoriale non si limitò alla sola promozione del territorio come un qualsiasi altro prodotto commerciale, ma si propose anche come possibile strumento per il management di politiche e strategie di tipo macroeconomico di livello comunitario, nazionale, regionale e locale, col fine di ricercare e/o creare quelle condizioni di appetibilità per investitori, imprese ed operatori economici, pubblici e privati.
Ciononostante, tra i suoi impieghi più diffusi vi fu appunto quello della ricerca delle condizioni che creavano appetibilità agli investimenti e tra le condizioni da ricercare vi erano il clima favorevole alla cultura d’impresa, la storia e le tradizioni locali, ottima conservazione dell’ambiente, elevata qualità della vita, facilità di stabilire partenariati pubblici e privati, presenza di centri di sviluppo e ricerca, accessibilità alle innovazioni, capitale umano e know-how, dotazione infrastrutturale, disponibilità di materie prime e basso costo dei fattori produttivi, soprattutto della forza lavoro.
Però, in un mercato globale dove la maggior parte dei commerci si basavano (e si basano ancora) su beni materiali, ovvero su merci e prodotti i cui costi di produzione sono ancora oggi costituiti per l’80 % dalle materie prime e dall’incidenza del costo del lavoro, era abbastanza ovvio che l’Italia, non avendo materie prime ed avendo un elevato costo del lavoro, era svantaggiata già in partenza in questa competizione mondiale per attrarre investimenti ed imprese dall’estero.
Quindi, l'uso di tecniche e metodi di Marketing Teritoriale avvenne in un contesto del tutto sfavorevole: la maggior parte delle dinamiche di localizzazione e di delocalizzazione delle imprese da un paese ad un altro, coinvolsero solo in minima parte l'Italia, mentre si registrò una forte concentrazione degli investimenti nei paesi in via di sviluppo dell’America del Sud, del Sud-Est Asiatico, negli ex paesi del blocco sovietico e soprattutto in Cina.
Sotto altri aspetti, il Marketing Territoriale non si rilevò efficace nell ricerca di territori stranieri che potessero accogliere investimenti e nuove localizzazioni di imprese italiane: infatti, gli investimenti italiani all'estero di quel periodo furono frutto più delle mediazioni diplomatiche e/o delle attività di cooperazione internazionale, che non dell'agire degli operatori economici e qualche economista giustificò questo fatto dicendo che l'Italia non aveva mai avuto una spiccata propensione ad acquisire posizioni di primato commerciale nel mercato globale.
Ma gli aspetti più tragici che derivarono dall'uso del Marketing Territoriale furono la drastica riduzione degli investimenti stranieri in Italia e la perdita di quelle produzioni tipicamente italiane (mobile, calzaturiero, tessile-moda, ecc…), produzioni che sono finite, direttamente o indirettamente, proprio in quei paesi in via di sviluppo a forte capacità di attrazione di investimenti.
Ovviamente, le conseguenze più immediate che derivarono sulla realtà socioeconomica italiana furono la scomparsa di molte imprese (soprattutto piccole e medie) e l’entrata in crisi di molti sistemi industriali territoriali come i distretti.
Pertanto, alla luce di quanto detto, non parlerei più di efficace strumento di sviluppo locale; semmai, sarei più propenso a condividere l'opinione, in verità ancora di pochi, che il Marketing Territoriale si presta meglio ad essere uno strumento dei soli operatori economici in paesi ad economia matura (per la loro ricerca di condizioni favorevoli a nuovi investimenti) e un efficace strumento di attrazione degli investimenti (e quindi anche di sviluppo locale) nei soli paesi in via di sviluppo.
Forse, la mia opinione non sarebbe la stessa se si fosse utilizzato meglio il Marketing Territoriale sul lato del mantenimento degli investimenti produttivi sul territorio nazionale ed evitare così una loro fuga; ma, credo che tentativi di trattenere investimenti inItalia ne siano stati fatti e quindi, alla luce anche di questo, non posso che constatare una dolorosa verità, e cioè che il Marketing Territoriale, più che dare vigore alle nostre economie locali, ha finito soltanto per aggravare sia la condizione di molte economie locali, sia la generale condizione dell'economica nazionale, perdendo per questo gran parte della sua credibilità e della sua valenza di strumento per lo sviluppo locale.

martedì 19 febbraio 2008

Riferimenti metodologici per l'attività di Valutazione

Carissime colleghe, carissimi colleghi,
è con vero piacere riproporvi quanto appreso durante le mie attività formative in merito alla valutazione. Quello che ho qui riportato è una sintesi che però non trascura l'importanza dei Cicli di Policy per l'attività di valutazione, da me considerato un elemento teorico, metodologico ed operativo, imprescindibile per qualsiasi attività del policy maker. Ovviamente, resto a disposizione per eventuali richieste di informazioni e approfondimenti. Buona lettura.

Pietro Perrucci

1. Aspetti generali
L’attività di valutazione consiste nel giudicare se e come sono stati conseguiti gli obiettivi di una qualsiasi attività di Policy Making, nonché nel definire le modalità con cui sono stati raggiunti. Di conseguenza, oggetto della valutazione finisce per essere anche la strategia, il disegno, il Quadro Logico, il piano generale dell’intervento, attraverso il quale si è inteso provvedere alla soddisfazione di un bisogno, alla soluzione di un problema, all’analisi di una questione, alla realizzazione di un intervento.
Un’attività di valutazione coinvolge una pluralità di soggetti, che possono variare da caso a caso. Per linee generali, si può dire che i soggetti che sono coinvolti in una attività di valutazione sono i seguenti: un committente dell’attività di valutazione (in genere un ente della Pubblica Amministrazione), un valutatore indipendente (o il policy maker), gli stakeholders, rappresentanze sociali o cittadini interessati in qualche modo all’attività di valutazione.
In generale, i riferimenti culturali che debbono essere ritenuti imprescindibili rispetto ad una qualsiasi attività che un policy maker debba svolgere sono quelli della Partecipazione, Governance, Informazione Conoscenza Comunicazione, Metodo. La valutazione, in quanto attività tra le più tipiche del policy maker, deve anch’essa basarsi sui medesimi riferimenti culturali.
Oggetto della valutazione è una politica, un piano, un programma, un progetto, una legge, un’attività di cooperazione, un’attività organizzativa, l’erogazione di un servizio, una qualsiasi attività lavorativo-professionale.
Per questo, ai fini della valutazione, è altresì importante definire in che ambito e quale problematica si sta valutando. Sulla base dei miei studi, vi sarebbero almeno 6 "macrotipi" di "ambito/problematica", che sono: Società/sociale, Economia/economico, Ambiente/ambientale, Territorio/territoriale, Politica/politico, Istituzione/istituzionale. All’interno di ogni macrotipo di ambito/problematica è possibile individuare dei sottotipi di ambito/problematica (ad esempio, nell’ambito economico possiamo affrontare una tematica inerente il mercato, la domanda, l’offerta, l’organizzazione aziendale, ecc…).
Gli obiettivi della valutazione sono di tre tipi: quelli specifici, ovvero quelli che sono definiti espressamente dalla una politica, un piano, un programma, un progetto, o da qualsiasi altro oggetto di un processo di valutazione, il conseguimento dei quali è valutabile attraverso quegli effetti diretti ed immediati sulla problematica; quelli operativi, il conseguimento dei quali è valutabile attraverso le realizzazioni quantitative di beni e servizi creati; e quelli globali, il conseguimento dei quali è valutabile attraverso la misurazione degli impatti a lungo termine sull’ambito in cui si opera e, eventualmente, anche su altri ambiti connessi.
Si considerano inputs tutte quelle risorse, mezzi, strumenti e fattori, che vengono impiegati ed utilizzati al fine di conseguire gli obiettivi e risultati.
Nell’ambito della metodologia proposta per la valutazione si è soliti analizzare tre tipi di risultati: outputs, ovvero le realizzazioni di beni e servizi prodotti (utili per valutare gli obiettivi operativi); outcomes/results, effetti ed esiti diretti ed immediati (utili per valutare gli obiettivi specifici); impact, la durata nel tempo dei risultati (utili per valutare gli obiettivi globali/generali).
I principali criteri di valutazione sono: Attinenza/Pertinenza/Rilevanza, Efficienza, Efficacia, Utilità/Sostenibilità, Coerenza Interna e Coerenza Esterna.

2. Organizzazione e rigore metodolgico
Per portare avanti una buona attività di valutazione occorrono senz’altro due elementi fondamentali: Organizzazione e Rigore metodologico.
Organizzare una valutazione significa soprattutto:
a) inquadrare l’attività di valutazione
Per intraprendere una qualsiasi attività di valutazione una volta definite tutte quelle indicazioni di ordine generale (definizione di attività di valutazione, soggetti, riferimenti culturali, l’oggetto, l’ambito/problematica, obiettivi, inputs, risultati e criteri di valutazione dei medesimi), è necessario inquadrare tutta l’attività negli appositi Cicli di Policy.
b) definire il Ciclo di Policy Making e il Ciclo di Policy Analysis
Secondo quello che è un approccio ormai classico nell’attività di un policy maker, una buona attività valutativa dovrebbe prevedere la sua collocazione nell’ambito di almeno due cicli di policy. Di questi cicli, uno dove essere il ciclo di policy making e l’altro deve essere il corrispondente ciclo di policy analysis. Per esempio, se il ciclo di policy making prevede le fasi di 1.Agenda, 2.Formulazione, 3.Adozione, 4.Implementazione, 5.Valutazione e 6.Adattamento, il ciclo di policy analysis dovrebbe prevedere "in parallelo" altrettante fasi, che possono essere 1.Strutturazione del problema, 2.Previsione, 3.Raccomandazione, 4.Monitoraggio, 5.Giudizio e 6.Adattamento.
c) attività fondamentali
Sono costituite tutte da una serie di operazioni che sono fondamentali per l’attuazione del piano generale dell’intervento e quindi anche per l’attività di valutazione. Si tratta di una serie di attività fondamentali che riguardano la partecipazione degli stakeholders e dei cittadini all’intervento, la creazione di una base comune di conoscenza, fare informazione e comunicazione.
Per rigore metodologico si vuole far riferimento a:
a) unicità del quadro operativo
Unicità del quadro operativo significa arrivare ad elaborare e condividere un unico Quadro Logico, in base al quale si definisce il piano dell’intervento (o degli interventi), nonché la sua articolazione in fasi operative.
b) monitoraggio del piano generale dell’intervento
La realizzazione di un intervento presuppone una costante attività di monitoraggio, così articolato: 1) la creazione di un sistema di rilevazione dei dati e la predisposizione a monte di opportuni indicatori; 2) l’esecuzione operativa del monitoraggio del piano in tutti i suoi aspetti procedurali, fisici e finanziari; 3) interpretazione dei report di monitoraggio per fare informazione, comunicazione ed arricchimento di quella base comune di conoscenza.
c) allineamento dei cicli
Mantenere costantemente allineati i cicli di policy making con quello di policy analysis ed il ciclo della valutazione, con quello del piano, programma, progetto, politica, ecc…, e con quello del monitoraggio, si rileva essere essenziale per gestire con efficienza la realizzazione di un intervento e per il coordinamento dell’attività di valutazione con quella delle altre attività ad essa connesse.
d) flessibilità
Nella realizzazione di un intervento, accade spesso che le condizioni di partenza, ovvero quelle che hanno portato alla elaborazione di un piano, possano cambiare durante l’attuazione dell’intervento stesso; pertanto, poter eseguire continuamente le analisi e gli approfondimenti dei dati che emergono dal monitoraggio significa capire se e come cambiano queste condizioni di partenza, offrendo così al policy maker la possibilità di intervenire in ogni momento nella rielaborazione delle fasi dell’intervento, nel rivedere le strategie per conseguire gli obiettivi prefissati, nella possibilità di ricorrere ad alternative e quindi nel poter riorientare e/o rielaborare in ogni momento gli stessi cicli di policy. Quindi, rigore metodologico non come rigida osservanza del piano prestabilito degli interventi, ma come sua possibilità di poterlo continuamente modificarlo, per adattarlo a nuove e mutate condizioni.

3. Ciclo di valutazione
Altro aspetto che occorre tener presente in un’attività di valutazione è la definizione e l’articolazione dell’attività valutativa (o del processo di valutazione). Per far questo, ci si deve orientare attraverso un numero elevato di variabili, difficili da considerare o da prevedere tutte a priori. Per questo un policy maker, prim’ancora di essere un buon valutatore, deve essere un ottimo metodologo, cioè deve saper disegnare, costruire, progettare, pianificare, programmare, l’attività di valutazione. Per aiutarsi in questo, è possibile prevedere per linee generali (e certamente non esaustive) quali potrebbero essere le variabili o i fattori che condizionano la stesura di un processo di valutazione:
- il mandato e la tipologia di valutazione da eseguire (ex-ante, on-going, ex-post);
- lo stabilire come significato comune e condiviso che cosa si intende per valutazione;
- l’individuazione dei soggetti coinvolti;
- la verifica delle competenze, ruoli, capacità, saperi, expertice e titoli, dei soggetti coinvolti;
- il definire in ogni suo aspetto l’oggetto della valutazione (politica, programma, progetto);
- la fissazione del livello della valutazione (overall o in-depth)
- il definire i cicli di Policy Making e di Policy Analysis in cui collocare la valutazione;
- il definire l’ambito/problematica in cui si opera, ovvero effettuare l’attività di scoping;
- il fissare obiettivi, inputs, indicatori, modalità e criteri di valutazione dei risultati;
- l’organizzare l’attività di monitoraggio procedurale, fisico e finanziario;
- lo stabilire le fonti e le modalità di acquisizione dei dati;
- l’individuare le modalità e gli strumenti di elaborazione dei dati;
- lo scegliere gli strumenti (tools) e le tecniche con cui informare giudizi valutativi;
- il predisporre strumenti di Informazione, Comunicazione e diffusione della Conoscenza;
- operare il cambiamento, l’adattamento, l’adeguamento in base all’esito della valutazione.

Inoltre, così come elencate, queste attività del valutatore possono essere anche considerate le fasi più importanti del processo di valutazione, quindi, nel mentre si individuano le variabili ed i fattori che incidono su un processo di valutazione, è possibile nello stesso momento articolare l’attività di valutazione, così come ho fatto in questa sede.

Pietro Perrucci

martedì 5 febbraio 2008

La programmazione sociale: uno strumento contro devianza, processi di esclusione e malattia sociale

Perché gli attuali modelli contemporanei di società, nonostante i progressi compiuti nell’ambito dello sviluppo socio-economico, nelle politiche di welfare, di assistenza, di prevenzione dei crimini e di recupero sociale, continuano a generare ancora rilevanti fenomeni di devianza? Quali sono gli strumenti che si possono utilizzare per tentare di capire questo fenomeno? E soprattutto, con quale strumento si deve intervenire?
Sebbene recenti scoperte scientifiche dimostrano empiricamente l’esistenza di una predisposizione genetica di ogni individuo ad assumere atteggiamenti devianti (appunto per ciò che è scritto nel DNA) e sebbene studi statistici come quello dell’Organizzazione mondiale della Sanità (WHO) dimostrino come nella nostra società contemporanea una persona su quattro, nella vita, va in­contro a un disturbo psichico di una certa ri­levanza che, nell’80% dei casi, sarà causa di una qualche forma di devianza, ritengo che la questione non può essere spiegata solo in questi termini. La complessità del tema, infatti, è molto vasta ed un modo per dare una risposta adeguata alle domande di partenza sarebbe quello di ripercorrere attraverso uno studio, “l’evoluzione del pensiero filosofico e sociologico sulla devianza”, partendo dal ‘500, ovvero dall’inizio dell’epoca moderna.
A prima vista, uno studio del genere, porterebbe a pensare ad una complicazione della questione a causa dei numerosissimi riferimenti storici, teorici, ideologici e culturali; invece, quello che ho realizzato tra il 2005 ed il 2006, facendo leva su di un metodo di lavoro che, pur mantenendosi essenzialmente nell’alveo “socio-filosofico”, ha guardato anche alle numerose implicazioni interdisciplinari - tipiche di questo tema - è riuscito ugualmente ad arrivare ad una sintesi. Ovviamente, si è trattato di una sintesi molto articolata, ma proprio per questo è risultata essere molto più precisa e molto più appropriata rispetto alle domande da cui si partiva.
Attraverso questo studio, dunque, si è potuto osservare che in qualsiasi epoca, in qualsiasi paese ed in qualsiasi contesto socio-politico, le cause della devianza possono avere una chiave di lettura che ruota principalmente intorno a tre temi fondamentali: il sesso, il possesso e la lotta per il potere. Questa sorta di “retaggio antropologico” che l’uomo si porta da dietro da sempre è altresì presente nelle sociètà contemporanee, anche se qui sembra subire quasi una sorta di “attenuazione fenomenologia” a riguardo soprattutto le prime due questioni, sesso e possesso, essendo questi aspetti continuamente mitigati, il primo da molteplici processi culturali e il secondo da politiche di welfare e benessere. Pertanto, la maggior parte delle forme di devianza presenti nelle società contemporanee riguardano la lotta per il potere.
In particolare, possiamo dire che oggi molto elevati restano i livelli di conflittualità sociale e sono ancora molto presenti manifestazioni violente legate alla lotta per il potere. Invece, in forte ascesa, per quantità e per tipologia di manifestazione, sono le forme di devianza legate ad “atti non violenti”, legati sempre nella lotta per il potere o, se si preferisce, legati alla “logica” del suo mantenimento. Altresì in ascesa, risultano essere quelle forme di devianza stretta conseguenza dei forti “processi di esclusione di ampi settori della popolazione” dalla vita attiva e da un ruolo attivo nell’ambito della società, per effetto di processi economici, ivi compreso quello della “globalizzazione”.
Questi fenomeni sono molto presenti soprattutto nei contemporanei modelli di società neoliberali. Addirittura, in taluni passaggi di questo studio, è stato possibile dimostrare la tesi di un contemporaneo studioso francese - Loïc Wacquant - in base alla quale la causa del crescente numero dei processi di esclusione sta proprio negli scopi e nei fini del neoliberismo, ovvero il modello socio-economico più diffuso tra alcune delle maggiori democrazie occidentali, che avrebbe “una precisa politica di controllo sociale... l’esclusione…”. Infatti, gran parte degli individui che oggi compongono la società sono disoccupati, immigrati, senzatetto, disadattati sociali e psichici, e per essi l’unica prospettiva che ancora oggi si apre è quella della emarginazione, o peggio, una politica punitiva penale che ha nel carcere il modello dominante.
Tuttavia, ciò che più di ogni altro aspetto è risultato essere interessante in questo studio è stato essenzialmente quello di comprendere e spiegare come gli attuali modelli di società contemporanea, anche non neoliberali, danno vita in maniera quasi fisiologica a processi di esclusione, che non sono solo causa ma anche l’effetto forme di devianza anche per quella parte di popolazione che ricopre un ruolo attivo nella società, o per quella che vive in condizioni socioeconomiche migliori e quindi, quella che dispone di mezzi e possibilità maggiori di benessere. Pertanto, per poter comprendere a fondo i processi di esclusione, che assumono anche questa doppia veste di causa-effetto direttamente connessa alle molteplici forme di devianza, in tutti i tipi di società e tra tutte le componenti di un qualsiasi contesto sociale, ed eventualmente fornire una possibile chiave di lettura, si è ben compreso che non può esistere un'unica chiave di lettura valida per tutti i contesti storici e per tutti i contesti sociali; anzi, ciò che emerge con maggior certezza è proprio la carenza di nuovi e differenti approcci alla tematica della devianza, la mancanza di una cultura più interdisciplinare, la mancanza di una maggior capacità e profondità di analisi, la mancanza, in sostanza, di una nuova “visione della realtà”, dal momento che la devianza, così come tutte le tematiche sociali e non ad essa connesse (il potere, il ruolo dello Stato, le forme del controllo sociale, la criminalità, la normalità, la povertà, le nuove forme di disagio psico-sociale, la politica, l’economia e la medicina stessa), stanno acquisendo nuovi significati e nuove attualità, che abbisognano di nuove sensibilità.
Per esempio, tra i più emblematici mutamenti connessi con la tematica della devianza vi è quello che vede, tra i fattori che la determinano, l’aumento dei disturbi psichici. Questa tendenza sta portando a percepire il fenomeno della devianza non già come una causa dei processi di esclusione, ma bensì come un “male” o come una “malattia” e come tale passibile di terapia medica. Grave conseguenza di ciò, sta divenendo il fatto che a quel “processo di costruzione sociale della devianza” si sta sostituendo pian piano un “processo di costruzione sociale della malattia”. In questo processo, la centralità della “cura” sottrae l’individuo alla sua dimensione sociale e collettiva, spogliandolo, nella maggior parte dei casi, delle proprie peculiarità storiche, per farlo entrare in quelle, individualizzate e “destorificate”, di malato. Inoltre, per poterlo curare adeguatamente, occorre isolarlo e quindi lo stato di devianza, in quanto stato di malattia, gli fa chiudere al soggetto deviante (e quindi anche al malato) i rapporti con la società, con la natura e con il sistema sociale nei quali si originano, strappando la sua manifestazione comportamentale (oramai individuata come deviante) e il suo stato di malattia (diagnosticato come presente) a ogni loro radice e natura. Pertanto, se non si formano nuove sensibilità e non si approntano nuovi strumenti in grado di distinguere cos'è "devianza" e cos'è "malattia", potrebbe accadere che un problema che è per sua natura sociale, verrebbe scambiato come un problema medico e curato come tale. Accadrebbe così che, oltre a non risolvere il problema, ai già gravi processi di individualizzazione e di solitudine che colpiscono gli individui nelle società moderne per effetto di fenomeni come il consumismo, la persuasione dei mass media e la diffusione delle Information and Comunication Technology (il cui uso è strumentale anche per esercitare forme di controllo sociale sulle persone libere e sulle personalità molto articolate secondo status, ruoli, differenze specifiche, ecc…), si aggiungerebbe la necessità, quasi, di un ulteriore isolamento sociale per poter essere “adeguatamente trattati”, nel momento in cui ci si consegna, di fatto, nelle mani dello “specialista” (il medico), per essere guariti da questa "malattia sociale".
Di conseguenza, proprio per evitare distorsioni dele genere, rispetto ai temi della devianza, dei processi di esclusione e della malattia sociale, la Programmazione Sociale può e deve trovare i suoi fini, la sua ragion d’essere, il suo modo di operare, nonché il suo porsi come attività utile proprio nei contemporanei contesti sociali che sono abbastanza verosimili a quelli che si sono descritti. In altre parole, deve poter riuscire a trovare una risposta a quella domanda da cui siamo partiti, ovvero al “perché gli attuali modelli contemporanei di società, nonostante i progressi nell’ambito dello sviluppo socio-economico, nelle politiche di welfare, di assistenza, di prevenzione dei crimini e di recupero sociale, e nonostante i connessi strumenti che si hanno a disposizione, continuano a generare ancora rilevanti fenomeni di devianza”. Ed una volta che riesce a spiegare ciò attraverso l’interpretazione dei fenomeni e metodi sempre più interdisciplinari, credo che in un secondo momento potrà suggerire abbastanza agevolmente le opportune soluzioni a tutti i problemi che affliggono le società contemporanee, ivi compresi quelli della devianza, dei processi di esclusione e della malattia sociale.