lunedì 3 marzo 2008

Tre elementi per sostanziare lo Sviluppo Inclusivo: Democrazia Deliberativa, Autosostenibilità e Modello Reticolare

Come ho già detto più volte in altri contesti ed in altri articoli, da pochissimi anni a questa parte è possibile intravedere una nuova prospettiva per quell’idea di sviluppo socioeconomico basato sulla coesione sociale. Il ruolo sempre più ampio della partecipazione nei vari ambiti della programmazione, della progettazione, della pianificazione, della valutazione e dei processi di policy-making, e l’analisi dei vari strumenti “partecipativi” nella elaborazione delle politiche di sviluppo locale, hanno influito anche su quel pensiero economico che ha già concepito un tipo di sviluppo “pensato, progettato, costruito e condiviso”, e che ora si appresta a sostanziare un nuovo tipo di sviluppo che si può definire “inclusivo”.
Scusandomi con quanti hanno già letto quanto appena scritto, ritengo però che questa ripetizione, assieme ad altre che vi sono in questo articolo, rappresentino un passaggio fondamentale, sia per vedere in questo concetto un punto di approdo di tutta una evoluzione del pensiero economico sullo sviluppo locale, sia per individuare gli elementi che, a mio avviso, sostanzierebbero il concetto di sviluppo inclusivo, rendendolo organico ed autonomo rispetto ad altri concetti di sviluppo che lo hanno preceduto.
In questo articolo mi soffermo su quest'ultimo aspetto, ovvero sul fatto che nella vasta letteratura sullo sviluppo locale si possono facilmente individuare almeno tre diversi filoni di studio in cui è possibile ritrovare accenni allo sviluppo inclusivo. In un primo filone rientrerebbe tutta quella letteratura sui distretti e sui sistemi produttivi territoriali, che parla di inclusività quando si arriva a dimostrare che questi luoghi, oltre a porsi come sistemi di produzione economica, si pongono anche come luoghi produttori di conoscenza, di output simbolici e di beni intangibili, determinati dalla prossimità e dai legami relazionali, che coinvolgono tutti gli individui, le comunità, le imprese e gli enti locali esistenti sul territorio.
Un secondo filone di studi è quello che si rifà alla centralità urbana ed alla definizione delle città come ad un reticolo di quei legami relazionali tra individui, comunità, imprese ed enti locali, e che sono alla base di quei sistemi territoriali autoproduttori di conoscenza, di output simbolici e beni intangibili, ovvero di conseguenze che incidono a lungo su benessere e qualità del vivere in queste realtà territoriali.
Il terzo filone di studi è quello che è riguarda più da vicino lo sviluppo condiviso: in questo ambito, infatti, la prospettiva che caratterizza l’impegno dei vari attori in un processo di sviluppo si basa sul rispetto dei vincoli sociali (oltre che di quelli ambientali) e pertanto la partecipazione ai benefici dello sviluppo impone per definizione l’inclusività di tutte le componenti della società, ivi comprese quelle svantaggiate. In altre parole, a definire ed attuare forme di sviluppo condiviso sarebbero dunque le stesse istanze di inclusività che promanano dalle varie componenti sociali che partecipano alla definizione del processo di sviluppo, in maniera organizzata, sistemica, attraverso la loro rete di rapporti e relazioni.
Da questi tre filoni di studio, dunque, si possono ricavare almeno tre elementi che potrebbero sostanziare una definizione di sviluppo inclusivo. Tali elementi sono: la democrazia deliberativa, l’autosostenibilità, il modello reticolare

1. La democrazia deliberativa, ovvero gli strumenti della partecipazione
Se da un punto di vista più marcatamente sociologico si è portati ad affermare che “l’idea di democrazia è ancora in corso di invenzione ed è ancora aperta a una molteplicità di interpretazioni, nessuna definitiva” (Schattschneider, 1969), questo sembra che sia anche ciò che sta accadendo anche nell’ambito dei processi di policy-making che riguardono lo sviluppo socioeconomico. Qui, infatti, nuovi modelli organizzativi e produttivi del consenso hanno portato ad una sorta di “democraticizzazione” dei percorsi di crescita, così come testimoniato dal passaggio da un tipo di sviluppo top-down, imposto dall’alto, ad uno sviluppo di tipo bottom-up, cioè promosso dal basso della società.
Questo tipo di approccio, favorendo le piccole imprese, l’emancipazione dei lavoratori e i territori di società locali rimasti estranei alle traiettorie dello sviluppo della grande impresa, ha determinato in pratica l’inclusione in processi di sviluppo di realtà imprenditoriali e spaziali che, altrimenti, non avrebbero potuto avere un proprio ruolo, dando vita così una sorta di autodeterminazione da parte degli stessi attori nel definire i processi di sviluppo socioeconomico di un territorio.
L’aumento della partecipazione nella determinazione dei processi di sviluppo socioeconomico è stato possibile nel momento in cui ci si è accorti che il tradizionale contesto di democrazia rappresentativa, ovvero quello in cui è prevista una delega da parte dei cittadini a farsi rappresentare da altri in processi politico-decisionali, era entrato in crisi. Cosicché, alle tradizionali cause che già da un ventennio agiscono come fattori di crisi della democrazia rappresentativa (allontanamento dei cittadini dalla vita politica; progressiva riduzione della capacità di risposta dei governanti; insoddisfazione da parte dei governati), si è aggiunta anche quella progressiva svalutazione del ruolo svolto dai partiti politici come istituti di mediazione tra popolo e istituzioni, come portatori di domande e bisogni generali e quindi come organizzazioni capaci di definire processi di sviluppo socioeconomico.
In conseguenza della crisi del sistema della rappresentanza democratica, si sono fatte avanti sempre più frequentemente nuove istanze di democrazia più diretta. Autori come il Dahrendorf hanno sostenuto che “se si vuole restituire al popolo effettiva possibilità decisoria relativamente alle grandi questioni che lo riguardano allora varrebbe la pena di consultarlo direttamente…”. E tra i primi tentativi di ideazione e di attuazione di nuove istanze di democrazia diretta si affermarono nuovi strumenti di partecipazione al processo decisionale, oggi conosciuti con il nome di “deliberation day” (Akkerman, 2001), di “sondaggi deliberativi” (Fiskin, 1991, 2003), e di “arene deliberative” (L. Bobbio, 2002).
Per sondaggio deliberativo si intende una forma di sondaggio, su temi specifici, che consiste nell’usare un campione tradizionalmente rappresentativo in modo non tradizionale: in altre parole, le diverse centinaia di persone che rappresentano la popolazione d’una città vengono riuniti per due o tre giorni in un unico luogo, ricevendo informazioni preparate per loro da esperti di vari orientamenti, si riuniscono in piccoli gruppi “seminariali” dove tutti possono prendere la parola sotto la guida di moderatori addestrati, si confrontano con esperti e con i leader politici che rappresentano le varie opzioni in campo, per poi rispondere allo stesso questionario che era stato loro sottoposto all’inizio del periodo deliberativo.
Per deliberation day si intende in un allargamento del sondaggio deliberativo da un semplice campione di poche centinaia di persone a una parte rilevante della popolazione (magari oltre il 50%) e tutte queste persone verranno sottoposte ad un trattamento “deliberativo” in un determinato momento prima però di una consultazione (o votazione) ufficiale.
Le arene deliberative possono configurarsi come dei luoghi fisici all’interno dei quali tutti i diretti interessati ad una decisione s’incontrano e prendono parte, in modo strutturato (cioè con delle regole prefissate), ad un processo collettivo di decisione. Con questo strumento si opera il superamento delle tradizionali esperienze di partecipazione o di consultazione, dove si mantiene una netta distinzione tra istituzioni che propongono e cittadini che vengono ascoltati. Nelle arene deliberative, infatti, il compito di decidere è affidato all’interazione, paritaria e organizzata, fra tutti i soggetti coinvolti, siano essi cittadini comuni, organizzazioni o pubblici poteri. Un esempio rappresentativo di arena deliberativa è stata l’approvazione del “bilancio partecipativo di Porto Alegre” in cui le consultazioni sono avvenute sulla base di uno schema decisionale abbastanza elementare, ovvero “abbiamo dei soldi da spendere, vogliamo utilizzarli: per costruire un parco? per rimodernare una scuola? per rifare il manto stradale? o per migliorare l’illuminazione pubblica?”
L’affermarsi di tali strumenti è stata tale che alcuni hanno incominciato a parlare di un passaggio dal “paradigma della rappresentanza”, cioè èlites in competizione tra loro cercano di conquistarsi correttamente il favore popolare attraverso libere e ricorrenti elezioni politiche, verso il “paradigma deliberativo”, secondo cui la volontà popolare non può più concepirsi soltanto attraverso libere elezioni, ma che si forma anche attraverso altri strumenti ugualmente importanti fatti di attivi interventi popolari (Damiani, 2007).
Secondo questa “logica deliberativa” della democrazia, il coinvolgimento attivo dei cittadini non si limita al momento elettorale: canali e forme aggiuntive di partecipazione debbono irrimediabilmente rendersi disponibili per poter formare le decisioni in modo democratico ed esercitare il controllo sui governanti. Tuttavia, queste nuove modalità di azione politica non rappresentano un vero e proprio superamento della democrazia rappresentativa; si presentano, più che altro, come specifiche modalità di governo che si affiancano alla democrazia della rappresentanza ed hanno come obiettivo il passaggio da una forma a “bassa intensità” democratica ad una forma a più “alta intensità” democratica.
Sotto questo aspetto, il concetto di “democrazia deliberativa” si basa sull’idea che la legittimazione di un ordinamento dipende dalla capacità dei cittadini di discutere gli affari pubblici su una visione generale della società, ritenendo perciò irrinunciabile, sia un elevato tasso di partecipazione alla vita politica e all’autonomia morale dei cittadini medesimi, sia esperienze di governance nel senso più stretto del termine, in cui partecipano una pluralità di soggetti (pubblici), con un unico comune obiettivo: “produrre politiche pubbliche ad elevato tasso di “inclusività politica” intendendosi per inclusività politica la capacità di saper “includere”, cioè coinvolgere, all’interno del processo decisionale tutti gli attori sopra la testa dei quali, irrimediabilmente, ricadrà il peso della decisione che s’intende adottare”.
Pertanto, in ragione di quanto detto, si è portati a pensare che sempre più spesso si sentirà parlare di democrazia deliberativa nell’ambito dello sviluppo locale, ovvero di una forma allargata di governance, ad alto tasso di inclusività, che nello scegliere tra più alternative, punta al coinvolgimento dei vari attori e pretende una soluzione condivisa al problema comunemente percepito in un contesto socioeconomico. Pertanto, nell’ambito dello sviluppo locale il senso terminologico della parola “deliberare” non sarà più quello tipico del vocabolario italiano in cui si intende prendere una decisione dopo un accurato esame delle argomentazioni favorevoli e contrarie, ma si avvicinerà molto di più al significato terminologico del vocabolo inglese “deliberation”, che significa “un processo dialogico che riconosce alla discussione il ruolo fondamentale nel trovare delle ragioni che siano persuasive per tutti” (Cohen, 1989, 1998).

2. L’autosostenibilità
Si è accennato in precedenza che un processo di sviluppo debba basarsi non solo sul rispetto dei vincoli sociali, ma anche su vincoli di natura “ambientale”. Pertanto, affinché un tipo di sviluppo possa essere definito davvero inclusivo, oltre richiedere l’introduzione di strumenti decisionali “deliberativi” che tengano conto delle relazioni che si sviluppano tra individui che compongono le comunità locali, occorre che richieda altresì l’introduzione di riferimenti teorici, approcci, e strumenti decisionali, che aiutino a ritessere le relazioni non più soltanto tra individui, ma anche tra individui, comunità ed ambiente. E sotto questo aspetto uno sviluppo locale di tipo “autosostenibile” contiene la visione socio-politica di nuove forme di partecipazione, di democrazia e quindi di inclusività che si realizzano sotto diversi aspetti (Magnaghi, 2001).
Per “sviluppo locale autosostenibile”, si intende un “paradigma normativo” che, insistendo sulla “valorizzazione delle risorse territoriali” e sulla “identità locale”, si caratterizza per due aspetti peculiari: da un lato, mira alla ricerca e alla costruzione di nuove regole insediative, urbanistiche, sociali, produttive, economiche ed ambientali, che risultino di per sé produttive di “omeostasi locali” e di “equilibri di lungo periodo”, nelle relazioni che si sviluppano tra individui comunità ed ambiente; dall’altro, presuppone un doppio mutamento culturale, tanto nello studio dello spazio – dove si passa dalle descrizioni funzionali di un territorio ad descrizioni “identitarie” di quella dotazione di caratteri socioeconomici del territorio – quanto al riferirsi ad approcci multidisciplinari e multisettoriali di sostenibilità, che presuppongono “il passaggio dalla sostenibilità alle diverse forme di sostenibilità”.
In questo passaggio si va dunque da un concetto che, come si è visto, intende l’attivazione di regole virtuose dell’insediamento umano atte a produrre “autosostenibilità”, ad altri concetti di sostenibilità, quali:
- la sostenibilità territoriale, la capacità di un modello insediativo di promuovere continuamente “processi di nuova territorializzazione”, o “processi di riterritorializzazione”;
- la sostenibilità economica, la capacità di un modello di crescita di creare valore aggiunto territoriale attraverso le sinergie tra economia ambiente e comunità locale;
- sostenibilità politica, la capacità di una comunità locale di dotarsi di un “autogoverno”, rispetto alle relazioni con sistemi decisionali esogeni e sovraordinati;
- sostenibilità sociale, capacità di generare un elevato livello di integrazione degli attori nel sistema decisionale di una comunità locale, soprattutto di quelli più deboli per conseguire equità sociale e di genere.
Nell’ambito dello sviluppo locale autosostenibile, dunque, le forme di sostenibilità che fanno maggiormente riferimento agli aspetti inclusivi sono l’approccio di sostenibilità politica e l’approccio di sostenibilità sociale.
Laddove gli abitanti sono stati espropriati da ogni decisionalità sul territorio in cui abitano e quindi sono rimasti sostanzialmente estranei al loro ambiente ed al loro territorio, si manifesta la necessità di fare in modo che quelle stesse comunità su cui ricadono conseguenze positive e negative di ogni processo di sviluppo possano partecipare in modo sempre più allargato ed in maniera sempre più diretta, a decidere del loro futuro. Così, il nodo politico della sostenibilità riguarda tanto i modi di partecipazione alla determinazione dello sviluppo socioeconomico, quanto ai modi di appropriazione di quel “valore aggiunto” che si contribuirebbe a creare sul territorio da parte di una comunità locale proprio con lo sviluppo socioeconomico. Nell’ambito della partecipazione allo sviluppo inclusivo, vige il principio in base al quale non ci potrebbe essere sostenibilità politica in assenza di un rapporto diretto fra la crescita della società locale, gli istituti di democrazia, le reti civiche, e la capacità di contrattazione tra attori, capacità che dovrebbe generarsi all’interno di quella fitta rete di rapporti e relazioni non gerarchiche.
Per ciò che attiene invece i modi di appropriazione di quel “valore aggiunto territoriale” significa, da un lato, dar forza ai soggetti che potrebbero produrre questo valore aggiunto e dall’altro, accrescere le forme di “autogoverno” delle società locali, ovvero dar spazio al pluralismo culturale, riconoscimento delle differenze, gestione della complessità e gestione dei conflitti che inevitabilmente si generano.
Il problema che più spesso si è presentato nelle esperienze di sviluppo locale è stato che non tutti gli attori hanno avuto un ruolo importante e solo quelli che avevano accesso alla politica, all’informazione, alle risorse culturali ed economiche, alle innovazioni, alle reti di comunicazione telematica, si sono ritrovati ad usufruire dei benefici. Sicché gruppi sociali come le donne, i disoccupati, gli anziani, i giovani, gli immigrati e (per certi aspetti) diverse categorie di imprese ed imprenditori, si sono ritrovati ad essere emarginati o esclusi dalla partecipazione, tanto nella definizione, quanto dalla ripartizione delle risorse generate dai processi di sviluppo socioeconomici. Per ovviare a questo inconveniente, l’approccio di sostenibilità politica, che è parte del più ampio principio di autosostenibilità, impone che gli enti locali si facciano carico di garantire una equa partecipazione, sia nella definizione, sia nell’accesso ai benefici ed alle risorse generatesi con lo sviluppo.
Così, è stato proposto da alcuni (Gatti, 1990) di imporre un sistema di indicatori che verifichino la composizione sociale degli attori, che misurino le capacità degli attori più deboli, che accertino la messa in atto di azioni volte ad incrementare la capacità di attori deboli e la predisposizione di sistemi di ascolto reciproco e di accesso alle informazioni, e soprattutto, che valutino l’autogoverno di un sistema locale attraverso indicatori come il grado di strutturazione, il grado di integrazione, il grado di autonomia, il grado di efficienza ed il grado di innovazione.

3. Il modello reticolare
La rete è di per sé uno strumento che genera inclusione e quindi contribuisce enormemente alla realizzazione di quella coesione sociale che è alla base dello sviluppo condiviso e quindi anche dello sviluppo inclusivo. Pertanto, se si assume che la qualità di un territorio possa essere determinata da un accettabile grado di coesione sociale e se si accetta che la coesione sociale si determina anche con il ricorso a strumenti di democrazia deliberativa sullo sfondo dell’autosostenibilità, ovvero con il ricorso ad un sistema di regole che porta alla produzione di “omeostasi locali” e di “equilibri di lungo periodo”, si può senz’altro assumere che la qualità del territorio debba essere anche una conseguenza dello sviluppo inclusivo. Questo perché è abbastanza facile intravedere nella partecipazione di tutti gli attori allo sviluppo, nelle sinergie attivabili tra i diversi attori e nello stesso contesto di interdipendenza sistemica tra attori, comunità locali ed ambiente, come un tutt’uno che trova nel territorio un collante ideale ed identitario, in cui “fare società locale”.
Una tale rappresentazione delle realtà territoriali non potrebbe essere possibile se non attraverso l’unico strumento che al momento possa consentire allo sviluppo inclusivo di generare qualità del territorio: il “modello reticolare”.
Per modello reticolare si intende un’organizzazione ed una configurazione del territorio paragonabile ad un insieme quasi infinito di collegamenti tra i vari elementi soggettivi ed oggettivi che lo compongono, consentendo ad ognuno di essi di connettersi, di interagire, di partecipare, di comunicare, di informare e di essere informato, di rappresentare e, soprattutto, di essere parte di un sistema, il tutto grazie allo strumento della rete ed alla sua versatilità.
Secondo una delle prime definizioni elaborate nell’ambito dello sviluppo locale, la rete è uno strumento “… in grado di descrivere modalità anche molto diverse di rapporti tra unità produttive e di organizzazione spaziale della produzione, … [è] … in grado di realizzare processi di apprendimento collettivo fondati sulla combinazione di conoscenze e saperi apportati da vari partner…” (Maillat, Crevoisier, Lecoq, 1991). Stando a questa rappresentazione, dunque, il modello reticolare definisce un territorio secondo un’articolazione che è a diverse dimensioni:
- la dimensione economica, che propone una organizzazione che va oltre la dicotomia impresa/mercato;
- la dimensione cognitiva, nel senso che la rete è depositaria di processi di apprendimento collettivo;
- la dimensione normativa, intesa come complesso di regole di condotta.
Da questa rappresentazione emerge una interpretazione per i concetti di tempo e di spazio delle relazioni: per quanto riguarda il tempo, la rete consente rapporti di durata superiore a quelli in cui si iscrivono le normali relazioni; sotto l’aspetto spaziale, la rete supera quel presupposto della necessità di una prossimità fisica tra gli attori nella dinamica relazionale, pur non sminuendo, ma anzi valorizzando, il fatto di essere ugualmente il prodotto di un contesto territoriale. E per l’elevato numero di relazioni che si possono sviluppare attraverso la rete, si è arrivati addirittura a parlare di “capitale relazionale” che gli attori stessi sviluppano durante le loro frequentazioni.
Quanto detto in questo quasi “primordiale” concetto rete, ci consente di cogliere meglio il senso dell’espressione “qualità del territorio”, soprattutto come attesa conseguenza dello sviluppo inclusivo. In quanto risultato non già di elementi economico-qualitativi, ma di elementi qualitativi-organizzativi, che riguardano sia la strutturazione interna, sia la capacità di interiorizzare risorse ed informazioni disponibili nell’ambiente esterno, ci sembra possibile sostenere che un modello reticolare possa essere esso stesso produttore di qualità del territorio dal momento che è in grado di
- progettare
- mobilitare le risorse
- definire obiettivi collettivi
- tutelare interessi diffusi
- generare e riprodurre risorse fiduciarie
- accrescere le opportunità degli operatori
- far cooperare gli attori per competere
Inoltre, per la sua capacità di coinvolgere tutti, il modello reticolare diventa altresì parte essenziale dello sviluppo inclusivo, e che per questa elevata capacità di coinvolgimento si può altresì sostenere che lo stesso sviluppo inclusivo finisce dunque per generare anche coesione sociale.