venerdì 28 marzo 2008

Area Metropolitana di Bari

Carissimi colleghi, eccovi l'indice della mia tesi che mi avete chiesto. Tenete conto che sono passati appena 20 anni dalla sua discussione e molte delle tematiche trattate, hanno avuto una evoluzione. Sperando nella sua utilità per i vostri studi e ricerche, resto a vostra disposizione per chiarimenti e informazioni supplementari. Grazie.

Università Università degli Studi di Bari
Laureando Pietro Perrucci
Relatore Ch.mo Prof. Francesco Losurdo
Facoltà Giurisprudenza
Corso di Laurea Scienze Politiche
Indirizzo di Laurea Economico-Internazionale
Materia di Tesi Geografia Politica ed Economica
Anno Accademico 1990/1991
Data discussione 12.12.1991
Voto finale 106/110
IPOTESI E PROPOSTE DI ORGANIZZAZIONE E DI GOVERNO PER UN SISTEMA
TERRITOTIALE POLICENTRICO: L’AREA METROPOLITANA DI BARI
Introduzione
Parte I – Aspetti storico-istituzionali
1. ANALISI DELLE PRINCIPALI ESPERIENZE METROPOLITANE EUROPEE
1.1 Utilità di un’analisi delle aree metropolitane europee
1.1.1 Parigi
1.1.2 Londra
1.1.3 Amsterdam
1.2 Le esperienze di governo metropolitano in Europa. Punti di forza e di debolezza
1.3 Contenuti teorici, metodologici, operativi ed istituzionali dell’esperienza europea
2. IL SISTEMA METROPOLITANO ITALIANO E MERIDIONALE
2.1 Le aree metropolitane in Italia
2.2 Componenti strutturali e dinamiche tendenziali
2.3 La questione metropolitana nel Mezzogiorno
2.4 Problemi di delimitazione territoriale delle aree metropolitane in Italia
2.5 Tentativi di definizione istituzionale: la legge n. 142/90.
Parte II – L’Area Metropolitana di Bari
3. ANALISI DELLE FUNZIONI URBANE E METROPOLITANE
3.1 Rapporto tra delimitazione e funzioni nell’Area Metropolitana di Bari
3.2 Definizione concettuale di “funzione urbana” e “funzione metropolitana”
3.3 Le funzioni amministrative metropolitane secondo la legge n. 142/90
3.4 Attività economiche e definizione funzionale dell’Area Metropolitana di Bari. I
servizi alla popolazione
3.5 Attività economiche e definizione funzionale dell’Area Metropolitana di Bari.
Relazioni tra sistema delle imprese e territorio
3.6 Caratterizzazione funzionale dell’Area Metropolitana di Bari
3.7 Lo scenario emergente e la ripartizione delle funzioni
4. ANALISI DELLA PROGRAMMAZIONE ALIVELLO COMUNITARIO,
NAZIONALE, REGIONALE E PROVINCIALE
4.1 Gli orientamenti della Comunità Economica Europea
4.2 Le indicazioni della programmazione nazionale
4.3 La trasposizione degli indirizzi nella programmazione regionale
4.4 Le opzioni programmatiche e le scelte operative
4.4.1 Gli obiettivi
4.4.2 Le funzioni
4.4.3 Le ipotesi di delimitazione
4.5 Le scelte di programmazione sub-regionale
Parte III – Ipotesi di configurazione dell’Area Metropolitana di Bari
5. PROBLEMI DI DELIMITAZIONE DELL’AMBITO TERRITORIALE
METROPOLITANO
5.1 Dalle ipotesi programmatiche alle tendenze reali
5.2 I fattori costitutivi della metropolitanità dell’area barese. Situazione e tendenze
5.3 Confronti con la realtà delle aree metropolitane europee
5.3.1 Sistema territoriale ed “effetto città”
5.3.2 La rispondenza al “modello reticolare”
5.3.3 Verifica della corrispondenza normativa
5.4 Una proposta di governo metropolitano per Bari
6. LE INIZIATIVE PROGETTUALI IN ATTO
6.1 Riconversione e ristrutturazione della Fiera del Levante
6.2 Programma Tecnopolis
6.3 Nodo ferroviario di Bari
6.4 Valutazione d’insieme delle iniziative progettuali considerate
CONCLUSIONI
BIBLIOGRAFIA

mercoledì 19 marzo 2008

La Politica di Coesione nella Programmazione 2007-2013

Anche se con colpevole ritardo, arrivo finalmente a pubblicare una sintesi delle principali novità in materia di politica di Coesione Europea. Il lavoro di sintesi, non è stato nè facile, nè potra mai essere esaustivo, viste le molteplici novità riscontrate rispetto alla programmazione 2000-2006. Pertanto, quello che leggerete in questo articolo è solo un tentativo che ho fatto per ordinare quelli che (a mio avviso) sembrano essere gli elementi più importanti. Volutamente ho trascurato la parte dei Programmi Operativi, regionali, nazionali, interregionali e di cooperazione internazionale, la cui quantità è tale da non riuscire ad oggi ad avereun quadro chiaro e completo.

1. Orientamenti Strategici Comunitari in materia di Coesione

Priorità:
1. Rendere più attraenti gli Stati membri, le regioni e le città migliorando l’accessibilità, garantendo una qualità e un livello adeguati di servizi e tutelando l’ambiente.
2. Promuovere l’innovazione, l’imprenditorialità e lo sviluppo dell’economia della conoscenza mediante lo sviluppo della ricerca e dell’innovazione, comprese le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione.
3. Creare nuovi e migliori posti di lavoro attirando un maggior numero di persone verso il mercato del lavoro o l’attività imprenditoriale, migliorando l’adattabilità dei lavoratori e delle imprese e aumentando gli investimenti nel capitale umano.
Principi:
1. Incentrarsi maggiormente sulla conoscenza, sulla ricerca, sull’innovazione e sul capitale umano. 2. Sviluppo sostenibile.
3. Parità tra uomini e donne
4. Prevenire ogni discriminazione basata su sesso, razza o origine etnica, religione o convinzioni personali, disabilità, età e orientamento sessuale.
Orientamenti:
1. Rendere l’Europa e le sue regioni più attraenti per gli investimenti e l’occupazione
Potenziare le infrastrutture di trasporto
Rafforzare le sinergie tra tutela dell’ambiente e crescita
Affrontare l’uso intensivo delle fonti energetiche tradizionali in Europa
2. Promuovere la (società della) conoscenza e l’innovazione a favore della crescita
Aumentare e indirizzare meglio gli investimenti nell’RST
Facilitare l’innovazione e promuovere l’imprenditorialità
Promuovere la società dell’informazione per tutti
Migliorare l’accesso al credito
3. Posti di lavoro migliori e più numerosi
Far sì che un maggior numero di persone arrivi e rimanga sul mercato del lavoro e modernizzare i sistemi di protezione sociale
Migliorare l’adattabilità dei lavoratori e delle imprese e rendere più flessibile il mercato del lavoro
Aumentare gli investimenti nel capitale umano migliorando l’istruzione e le competenze
Capacità amministrativa
Contribuire a mantenere in buona salute la popolazione attiva
La dimensione territoriale della politica di coesione (quarto orientamento?)
1. Contributo delle città alla crescita e all’occupazione
2. Sostegno alla diversificazione economica delle aree rurali, delle aree di pesca e di quelle con svantaggi naturali
3. Cooperazione (Transfontaliera, Transnazionale, Interregionale)

2. I Regolamenti della Programmazione 2007-2013

- 1698/2005 FEASR
- 1080/2006 FESR
- 1081/2006 FSE
- 1082/2006 GECT
- 1083/2006 DISPOSIZIONI GENERALI FESR, FSE, FC
- 1084/2006 FC
- 1085/2006 IPA
- 1198/2006 FEP

3. Acquis Communautaire

- Complementarietà alle azioni nazionali e agli altri strumenti finanziari della Comunità;
- Coerenza con le priorità e le politiche comunitarie, (ivi compreso l’obbligo per la Commissione e per gli Stati membri, in base alle rispettive competenze, di provvedere affinché il 60% della spesa destinata all’Obiettivo “Convergenza” e il 75% della spesa destinata all’Obiettivo “Competitività regionale e Occupazione” siano destinati al perseguimento degli obiettivi prioritari della UE di promuovere la competitività e di creare posti di lavoro)
- Coordinamento con gli altri strumenti finanziari della Comunità;
- Conformità alle disposizioni del trattato e degli atti adottati in virtù di esso;
- Sussidiarietà;
- Programmazione (pluriennale, in fasi, priorità, finanziamento, gestione e controllo);
- Partenariato;
- Cofinanziamento da parte dei privati all’utilizzo dei fondi comunitari;
- Addizionalità del finanziamento da parte della regione e dello Stato Membro;
- Valutazione e Monitoraggio;
- Controllo di gestione;
- Disimpegno Automatico (regola N+2);
- Parità fra uomini e donne e non discriminazione;
- Sviluppo sostenibile;

4. Aspetti Generali della Riforma dei Fondi Strutturali

- Approccio programmatico più strategico
- Raccordo più organico (integrato) di tale politica con le strategie e gli indirizzi dei singoli Stati Membri UE
- Partenariato istituzionale più virtuoso e sistemico
- Introduzione di elementi di semplificazione

5. Principali Innovazioni

- Tre obiettivi: 1) CONVERGENZA fers fse fc (PUGLIA, CAMPANIA, CALABRIA, SICILIA) promuovere condizioni che favoriscano la crescita e fattori che portino a una convergenza reale per gli Stati membri e le regioni meno sviluppati; 2) COMPETITIVITÀ REGIONALE E OCCUPAZIONE fesr fse (TUTTE LE ALTRE REGIONI ESCLUSE BASILICATA IN PHASING OUT OB. 1 E SARDEGNA PHSING IN CRO, EX OB. 2) rafforzare la competitività e l’attrattività delle regioni nonché l’occupazione a livello regionale mediante un duplice approccio: con programmi di sviluppo intesi ad aiutare le regioni ad anticipare e a promuovere il cambiamento economico mediante l’innovazione e la promozione della società della conoscenza, l’imprenditorialità, la protezione dell’ambiente e il miglioramento della loro accessibilità; creazione di posti di lavoro più numerosi e investimenti nelle risorse umane; 3) COOPERAZIONE TERRITORIALE fesr (aree NUTS 3 situate sulla frontiera interna ed esterna terrestre e marittima per max 150 Km) rafforza la cooperazione transfrontaliera mediante iniziative congiunte a livello locale e regionale, la cooperazione transnazionale volta a uno sviluppo territoriale integrato e la cooperazione e lo scambio di esperienze a livello interregionale.;
- Trasferimento delle Iniziative Comunitarie Leader, Urban e Equal, nell’ambito degli P.O., mentre Interreg diventa il terzo obiettivo della programmazione 2007-2013;
- Riduzione a due soli fondi strutturali FESR E FSE (che intervengono per stabilire le condizioni minime per la nascita di una economia di mercato), mentre il FC, pur finanziando opere infrastrutturali in stati con RNL procapite inferiore al 90%, non viene più considerato fondo strutturale, e perdita della sezione orientamento e della qualità di fondo strutturale da parte dell’ex FEOGA attuale FEASR e della Politica Agricola Comunitaria (PAC);
- Articolazione della politica di coesione su tre livelli: Comunitario (OSCC), Nazionale (QSN) e Regionale (PO);
- Sostituzione del QCS (riferito alle sole regioni ad obiettivo 1) e dei DOCUP (riferiti alle regioni obiettivi 2 e 3) con un unico Quadro Strategico Nazionale (QSN);
- Specificità dei fondi: un P.O. per ogni fondo di ogni regione (P.O. FESR Puglia, P.O. FSE Puglia, P.O. Interreg Puglia, ecc…)
- Articolazione della programmazione in Assi e Azioni (anziché in Assi Misure Azioni);
- Possibilità di un fondo di finanziare in maniera complementare azioni di altri fondi, nella misura del 10% di ciascun finanziamento di asse, finanziamenti FESR per ENPI, IPA e azioni per la cooperazione territoriale nelle regioni CONV e CRO
- Autorità di Pagamento diventa Autorità di Certificazione (Autorità di Gestione, Certificazione e Audit);
- Introduzione di istituti di funzioni gestionali dei PO: Organismo intermedio, sovvenzione globale, sottodelega);
- Rafforzamento del partenariato istituzionale e sociale;
- Introduzione del Beneficiario (invece del beneficiario finale);
- Estensione del principio di proporzionalità in materia di controllo;
- Introduzione della chiusura parziale dei PO;
- Rinvio alle legislazioni nazionali circa l’elegibilità delle spese;
- Facoltà (non più vincolo dello Stato Membro) di istituire la riserva nazionale di efficacia e di efficienza;
- Concentrazione degli interventi su innovazione ed economia della conoscenza, ambiente e prevenzione dei rischi, accessibilità ai servizi di trasporto e delle ITC;
- Istituzione di GECT, con compiti di autorità di gestione e segretariato tecnico congiunto;
- Principali misure del FSE: adattamento di lavoratori ed imprese; accesso all’occupazione prevenzione della disoccupazione, accrescere la vita lavorativa e partecipazione al mercato del lavoro, rafforzare l’integrazione sociale, partenariati per le riforme nei settori dell’occupazione e dell’integrazione;
- Istituzione del FAS (fanno parte del meridione tutte le regioni del sud più Molise e Abruzzo, e stanzia l’85% delle sue risorse di cui almeno il 30% deve andare in conto capitale, cui si aggiunge il 15% comunitario);
- Tre nuovi strumenti di politica regionale aiuteranno gli Stati membri e le regioni ad assicurare una gestione sana e efficiente dei finanziamenti e a fare un miglior uso degli strumenti di ingegneria finanziaria, tramite la BEI: JASPERS (Assistenza congiunta ai progetti nelle regioni europee – Besr CE); JEREMIE (Risorse europee congiunte per le micro, le piccole e le medie imprese – FEI CE); JESSICA (Sostegno comunitario congiunto per lo sviluppo sostenibile nelle aree urbane – Besr CE);

6. La Governance nel Processo di Programmazione 2007-2013

- Intesa Stato-Regioni-Autonomie Locali del 3 febbraio 2005;
- Documenti Strategici Preliminari Nazionali dei Ministeri interessati
- Documento Strategico del Mezzogiorno
- Documenti Strategici Preliminari Regionali
- Evoluzione dei Documenti Strategici Preliminari Regionali in Documenti Unitari
- Evoluzione Documenti Strategici Preliminari Nazionali in Documenti di programmazione settoriale
- Individuazione delle Intese Istituzionali di Programma e relativi APQ
- Introduzione dell’Accordo di Programma Regionale (Strumento di Attuazione Regionale)
- Orientamenti Strategici per la Coesione Economica Sociale Territoriale del Consiglio Europeo proposti dalla Commissione e dagli Stati Membri
- Elaborazione del QSN ed estensione del QSN ai Fondi Europei e al FAS
Per la Governance a riguardo la cooperazione territoriale europea si faccia ridfìferimento ai seguenti organi GECT:
- Autorità di Gestione Unica (MA)
- Segretariato Tecnico Congiunto (JST)
- Comitato di Sorveglianza
- Autorità di Certificazione Unica
- Autorità di Audit Unica
- Coordinatori Nazionali e National Contact Point

7. Le Principali Indicazioni del Regolamento n. 1083/2006 CE

A) QUADRO DI RIFERIMENTO STRATEGICO NAZIONALE - QRSN
E' presentato dallo Stato per: 1) assicurare la coerenza dell'intervento dei Fondi con gli orientamenti strategici comunitari per la coesione e che identifica il collegamento con le priorità della Comunità, da un lato, e con il proprio programma nazionale di riforma, dall'altro; 2) preparare la programmazione dei Fondi. 3) applicare l'obiettivo «Convergenza» e l'obiettivo «Competitività regionale e occupazione» e anche l'obiettivo «Cooperazione territoriale europea», se uno Stato lo decide. Il QRSN contiene: a) un'analisi delle disparità, dei ritardi e delle potenzialità di sviluppo; b) la strategia scelta in base a tale analisi, comprese le priorità tematiche e territoriali; c) l'elenco dei programmi operativi per gli obiettivi «Convergenza» e «Competitività regionale e occupazione»; d) una descrizione del modo in cui la spesa per gli obiettivi «Convergenza» e «Competitività regionale e occupazione» contribuisce alle priorità dell'Unione Europea di promuovere la competitività e di creare posti di lavoro, compreso il raggiungimento degli obiettivi degli orientamenti integrati per la crescita e l'occupazione (2005-2008), di cui all'articolo 9, paragrafo 3; e) la dotazione annuale indicativa di ciascun Fondo per programma; f) unicamente per le regioni dell'obiettivo «Convergenza»: i) l'azione prevista per rafforzare l'efficienza amministrativa dello Stato membro; ii) l'importo della dotazione annuale complessiva prevista nell'ambito del FEASR e del FEP; iii) le informazioni necessarie per la verifica ex ante del rispetto del principio di addizionalità di cui all'articolo 15; g) per gli Stati membri ammissibili al Fondo di coesione (RNL inferiore al 90% UE 15 e superiore UE 25) le informazioni sui meccanismi volti ad assicurare il coordinamento tra i programmi operativi stessi e tra questi e il FEASR, il FEP, e, se del caso, gli interventi della BEI e di altri strumenti finanziari esistenti. 5. Può inoltre contenere: a) la procedura per il coordinamento tra la politica di coesione della Comunità e le politiche pertinenti a livello nazionale, settoriale e regionale degli Stati membri interessati; b) per gli Stati membri diversi da quelli di cui al paragrafo 4, lettera g), informazione sui meccanismi volti ad assicurare il coordinamento tra gli stessi programmi operativi e tra questi e il FEASR, il FEP, e gli interventi della BEI e di altri strumenti finanziari esistenti. Il QRSN è preparato dallo Stato membro, previa consultazione con i pertinenti, copre il periodo dal 1o gennaio 2007 al 31 dicembre 2003, viene elaborato in dialogo con la Commissione, al fine di garantire un approccio comune (ciascuno Stato membro trasmette il QRSN alla Commissione entro cinque mesi dall'adozione degli orientamenti strategici comunitari per la coesione e la Commissione prende atto della strategia nazionale e dei temi prioritari prescelti per l'intervento dei Fondi e formula le osservazioni che ritiene opportune entro tre mesi dalla data di ricezione del quadro di riferimento. Lo Stato membro può presentare contestualmente il quadro di riferimento strategico nazionale e i programmi operativi.

B) SEGUITO STRATEGICO
1. Rapporto strategico dello Stato Membro: Per la prima volta nel 2007, ciascuno Stato inserisce nel rapporto annuale di attuazione del proprio programma nazionale di riforma una sezione sintetica sul contributo dei programmi operativi cofinanziati dai Fondi ai fini dell'attuazione del programma nazionale di riforma (Rapporto strategico) in cui sono inseriti: a) la situazione e le tendenze socioeconomiche; b) i risultati, le sfide e le prospettive future per quanto riguarda l'attuazione della strategia concordata; c) esempi di buone prassi.
2. Rapporto strategico della Commissione: Per la prima volta nel 2008 e in seguito a cadenza annuale, la Commissione inserisce nel suo rapporto annuale sullo stato dei lavori da presentare al Consiglio europeo una sezione che sintetizza i rapporti degli Stati membri, in particolare i progressi compiuti nel realizzare le priorità dell'Unione Europea intese a promuovere la competitività e a creare posti di lavoro, nonché a raggiungere gli obiettivi degli orientamenti integrati per la crescita e l'occupazione (2005-2008). Nel 2010 e nel 2013 e al più tardi entro il 1 aprile, la Commissione elabora un rapporto strategico che sintetizza i rapporti degli Stati membri. Il Consiglio esamina il rapporto strategico nel più breve tempo possibile dopo la sua pubblicazione, ed è trasmesso al Parlamento europeo, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, che sono invitate a tenere un dibattito in merito.
3. Relazione sulla coesione: è fatta dalla Commissione e comprende a) un bilancio dei progressi compiuti in materia di coesione economica e sociale, inclusa la situazione socioeconomica e lo sviluppo delle regioni, nonché l’integrazione delle priorità comunitarie, e b) un bilancio del ruolo dei Fondi, della BEI e degli altri strumenti finanziari, nonché l’effetto delle altre politiche comunitarie e nazionali sui progressi compiuti. Inoltre può contenere: a) proposte di misure e politiche comunitarie che dovrebbero essere adottate per rafforzare la coesione economica e sociale; b) proposte di adeguamento degli orientamenti strategici comunitari per la coesione necessari per rispecchiare i cambiamenti della politica comunitaria.

C) PROGRAMMI OPERATIVI
Le attività dei fondi sono svolte sotto forma di PO durano dal 2007 al 2013 (rivedibili perciò nel tempo), riguardano in genere un solo obiettivo e beneficiano in genere di un solo fondo. E' elaborato dallo Stato che lo presenta alla Commissione che ne verifica la capacità di realizzare le finalità delle priorità del QRSN e OSCC e lo approva o invitalo Stato a modificarlo. La Commissione lo adotterà entro 4 mesi dalla presentazione ufficiale dello Stato. Sono definiti a livello regionale per le regioni NUTS 2 in obiettivo convergenza, a livello nazionale in obiettivo convergenza per Stati che fruiscono del FC, a livello regionale se si tratta di aree NUTS 1 e 2 in obiettivo competitività regionale ed occupazione se finanziate dal FESR, oppure a livello nazionale se finanziate dal FSE, a livello di frontiera o gruppi di frontiera per la cooperazione territoriale europea se transfrontaliera, per zona di cooperazione per la cooperazione transnazionale e a livello comunitario per la cooperazione interregionale. La BEI e il FEI partecipano alla programmazione dell'intervento dei Fondi, alla preparazione dei QRSN e PO. I PO contengono: a) un'analisi della situazione della zona o del settore ammissibili in termini di punti di forza e debolezza e la strategia scelta di conseguenza; b) una motivazione delle priorità adottate tenuto conto degli orientamenti strategici comunitari per la coesione, del quadro di riferimento strategico nazionale nonché dei risultati della valutazione ex ante di cui all'articolo 48; c) informazioni relative agli assi prioritari e ai loro obiettivi specifici e gli indicatori di realizzazione e di risultato, con cui misurare i progressi compiuti rispetto alla situazione di partenza e l'efficacia degli obiettivi nell'attuazione degli assi prioritari; d) una ripartizione indicativa per categoria dell'uso previsto del contributo dei Fondi al programma operativo; e) un piano di finanziamento comprendente due tabelle, una che ripartisce annualmente l'importo della dotazione finanziaria complessiva prevista per il contributo di ciascun Fondo e una che specifica, per l'intero periodo di programmazione, per il programma operativo e per ciascun asse prioritario, l'importo della dotazione finanziaria complessiva del contributo della Comunità e delle controparti nazionali e il tasso di partecipazione dei Fondi.

D) GRANDI PROGETTI. FESR e Fc possono finanziare spese connesse a un'operazione comprendente una serie di lavori, attività o servizi in sé intesa a realizzare un'azione indivisibile di precisa natura tecnica o economica, che ha finalità chiaramente identificate e il cui costo complessivo supera i 25 milioni di EUR nel caso dell'ambiente e i 50 milioni di EUR negli altri settori

E) SOVVENZIONE GLOBALE. Lo Stato membro o l'autorità di gestione può delegare la gestione e l'attuazione di una parte di un PO a uno o più organismi intermedi, da essi designati, compresi gli enti locali, gli organismi di sviluppo regionale o le organizzazioni non governative, secondo le modalità previste da un accordo concluso tra lo Stato membro o l'autorità di gestione e l'organismo in questione.

F) ASSISTENZA TECNICA. Su iniziativa della Commissione: entro un limite dello 0,25 % della dotazione annuale rispettiva, i Fondi possono finanziare le azioni di preparazione, sorveglianza, sostegno tecnico e amministrativo, valutazione, audit e controllo necessarie all'attuazione del presente regolamento. Su iniziativa dello Stato: i Fondi possono finanziare le attività di preparazione, gestione, sorveglianza, valutazione, informazione e controllo dei programmi operativi insieme alle attività volte a rafforzare la capacità amministrativa connessa all'attuazione dei Fondi, entro i limiti del 4 % dell'importo complessivo assegnato nell'ambito degli obiettivi «Convergenza» e «Competitività regionale e occupazione» e del 6 % dell'importo complessivo assegnato nell'ambito dell'obiettivo «Cooperazione territoriale europea».

G) VALUTAZIONE. Le valutazioni sono volte a migliorare la qualità, l'efficacia e la coerenza dell'intervento dei Fondi nonché la strategia e l'attuazione dei programmi operativi, tenendo conto dell'obiettivo di sviluppo sostenibile e della normativa comunitaria in materia di impatto ambientale e VAS. Possono essere di natura strategica (evoluzione di un programma rispetto alle priorità comunitarie e nazionali) oppure di natura operativa (sostenere la sorveglianza di un programma operativo). Effettuate da esperti o organismi, interni o esterni, funzionalmente indipendenti, le valutazioni sono finanziate tramite il bilancio per l'assistenza tecnica ed è la Commissione che fornisce orientamenti indicativi sui metodi di valutazione, compresi i parametri di qualità. Gli Stati membri effettuano una valutazione ex ante per ciascun programma operativo separatamente nell'ambito dell'obiettivo «Convergenza» (salvo se diversamente stabilito). Per l'obiettivo «Competitività regionale e occupazione», gli Stati effettuano, in alternativa, una valutazione ex ante relativa all'insieme dei programmi operativi, una valutazione per ciascun Fondo, una valutazione per ciascuna priorità o una valutazione per ciascun programma operativo. Per l'obiettivo «Cooperazione territoriale Europea», gli Stati membri effettuano congiuntamente una valutazione ex ante relativa a ciascun programma operativo o a vari programmi operativi. Gli Stati membri si dotano dei mezzi necessari allo svolgimento delle valutazioni, organizzano la produzione e la raccolta dei dati necessari e utilizzano i vari tipi di informazioni fornite dal sistema di sorveglianza. La Commissione, su sua iniziativa e in partenariato con lo Stato, può effettuare valutazioni strategiche, connesse alla sorveglianza dei programmi operativi qualora la loro realizzazione si allontani in maniera significativa rispetto agli obiettivi inizialmente fissati. Per ciascun obiettivo, la Commissione effettua una valutazione ex post in stretta collaborazione con lo Stato membro e con le autorità di gestione: questa copre l'insieme dei programmi operativi nell'ambito di ciascun obiettivo ed esamina il grado di utilizzazione delle risorse, l'efficienza e l'efficacia della programmazione dei Fondi e l'impatto socioeconomico. La valutazione ex post è ultimata entro il 31 dicembre 2015.

H) RISERVE. Uno Stato membro può decidere, di propria iniziativa, di istituire una riserva nazionale di efficacia ed efficienza per l'obiettivo «Convergenza» e/o per l'obiettivo «Competitività regionale e occupazione», pari, per ogni obiettivo, al 3 % della propria dotazione complessiva. In tal caso, esso valuta, per ciascuno degli obiettivi e non oltre il 30 giugno 2011, l'efficacia e l'efficienza dei suoi programmi operativi ed entro il 31 dicembre 2011, la Commissione assegna, sulla base delle proposte di ciascuno Stato membro interessato e in stretta consultazione con questo, la riserva nazionale di efficacia ed efficienza. Uno Stato membro può riservare, di propria iniziativa, una quota dell'importo del contributo annuale dei Fondi strutturali,pari all'1 % per l'obiettivo «Convergenza» e al 3 % per l'obiettivo «Competitività regionale e occupazione», per far fronte a crisi impreviste, locali o settoriali, legate alla ristrutturazione economica e sociale o alle conseguenze dell'apertura degli scambi. Lo Stato membro può assegnare la riserva per ciascun obiettivo a uno specifico programma nazionale o all'interno dei programmi operativi.

I) GESTIONE,CONTROLLO, SORVEGLIANZA
Gli Stati membri sono responsabili della gestione e del controllo dei programmi operativi. Lo Stato definisce: a) le funzioni degli organismi coinvolti nella gestione e nel controllo e la ripartizione delle funzioni all'interno di ciascun organismo; b) l'osservanza del principio della separazione delle funzioni fra tali organismi e all'interno degli stessi; c) procedure atte a garantire la correttezza e la regolarità delle spese dichiarate nell'ambito del programma operativo; d) sistemi di contabilità, sorveglianza e informativa finanziaria informatizzati; e) un sistema di informazione e sorveglianza nei casi in cui l'organismo responsabile affida l'esecuzione dei compiti a un altro organismo; f) disposizioni per la verifica del funzionamento dei sistemi; g) sistemi e procedure per garantire una pista di controllo adeguata; h) procedure di informazione e sorveglianza per le irregolarità e il recupero degli importi indebitamente versati; i) Autorità di gestione: un'autorità pubblica o un organismo pubblico o privato, nazionale, regionale o locale, designato dallo Stato membro per gestire il programma operativo; l) Autorità di certificazione: un'autorità pubblica o un organismo pubblico, nazionale, regionale o locale, designato dallo Stato membro per certificare le dichiarazioni di spesa e le domande di pagamento prima del loro invio alla Commissione; m) Autorità di audit: un'autorità pubblica o un organismo pubblico, nazionale, regionale o locale, funzionalmente indipendente dall'autorità di gestione e dall'autorità di certificazione, designato dallo Stato membro per ciascun programma operativo e responsabile della verifica dell'efficace funzionamento del sistema di gestione e di controllo; n) Comitato di sorveglianza: accerta l'efficacia e la qualità dell'attuazione del programma operativo basandosi sugli indicatori finanziari e sugli indicatori di realizzazione e di risultato, tenuto conto del principio di proporzionalità. Gli indicatori permettono di misurare i progressi compiuti rispetto alla situazione di partenza e l'efficacia degli obiettivi nell'attuazione degli assi prioritari.
La Commissione accerta che gli Stati membri abbiano predisposto sistemi di gestione e di controllo conformi alle disposizioni degli articoli da 58 a 62 e, sulla base dei rapporti di controllo annuali, del parere annuale dell'autorità di audit e delle proprie verifiche, che i sistemi funzionino efficacemente durante il periodo di attuazione dei programmi operativi.

giovedì 13 marzo 2008

1° Contributo al Piano Strategico di Area Vasta: "La Città Murgiana della Qualità e del Benessere"

Carissimi colleghi, carissimi lettori, con questo articolo comincio a contribuire alle attività del Piano Strategico di area vasta in cui è inserita la città di Gravina in Puglia. In questi miei contributi sarò fortemente critico e severo, convinto che ciò possa servire ad evitare che la nostra comunità perda ancora una volta un'opportunità per il suo sviluppo e per il suo futuro. Buona lettura.

1° Contributo: Metodo, Processo e Cicli di Policy (MAKING & ANALYSIS), Partecipazone, Ambiente, Programmazione, Informazione-Comunicazione-Conoscenza
Chi ha partecipato agli incontri di venerdì 29 febbraio e di sabato 1 marzo per l’avvio dei due partenariati istituzionale e socioeconomico, non ha potuto fare a meno di cogliere due aspetti evidentissimi: il primo, è la mancanza di linearità tra quelli che dovrebbero essere alcuni dei più importanti contenuti della pianificazione strategica, ovvero
METODO, PROCESSO E CICLI DI POLICY (MAKING & ANALYSIS)
PARTECIPAZIONE
AMBIENTE
PROGRAMMAZIONE
INFORMAZIONE-COMUNICAZIONE-CONOSCENZA

Il secondo, è la sensazione che ci sarà molto da fare se non si vorrà perdere l’ennesima opportunità di sviluppo per le nostre comunità, da sempre ai margini delle più importanti direttrici di sviluppo regionali, nazionali ed internazionali.

METODO, PROCESSO E CICLI DI POLICY (MAKING & ANALYSIS)
L’esposizione di quello che dovrebbe essere il quadro delle attività del piano strategico, non è apparsa molto lineare e malgrado la più volte richiamata la scientificità alla quale si sarebbe ispirato il progettista nel disegnare questo quadro, dalla sua esposizione non trasparivano elementi quali, il metodo di lavoro utilizzato, l’organica articolazione per fasi dell’intero processo di pianificazione, il processo di policy al quale deve sovraintendere tutta l’attività del piano e, soprattutto, la mancanza di una spiegazione sul come le attività di questa pianificazione si pongono rispetto ai cicli di policy (ciclo di policy making e ciclo di policy analysis). Di conseguenza, tutti gli aspetti progettuali, gestionali, organizzativi ed operativi esposti, si confondevano tra loro, al punto da non rendere chiari ai pochi presenti, né i confini tra l’ambito della pianificazione e l’ambito della programmazione del piano, né i confini tra le attività della "pianificazione strategica" e le attività della "valutazione strategica". La carenza di tutti questi aspetti di metodo e di processo, non si può spiegare solo con la mancanza di un policy maker (che avrebbe aiutato di certo nell’organizzare tutta l’attività del piano strategico), ma anche con la mancanza degli apporti scientifici che debbono essere propri di questa attività: ovvero, non bisogna solo richiamare a parole la scientificità del piano, ma bisogna dire anche a quale metodo, esperienza, best practice, autore, si è fatto riferimento.

PARTECIPAZIONE
Basso profilo e scarsa enfasi sono state date alla partecipazione: infatti, si è parlato di partecipazione solo in riferimento ai tavoli tematici, mentre del tutto ignorata è stata considerata la partecipazione intesa come concertazione, negoziazione e soprattutto come controllo di tutte le fasi della pianificazione strategica, che vanno da quella di scoping sino a quella del monitoraggio e valutazione dei risultati. A tal proposito, vorrei ricordarvi che la direttiva n. 2003/35/CE prevede la partecipazione del pubblico nell’elaborazione di piani e programmi in materia ambientale. E questo è ancor più grave, se si tiene conto che in Italia di partecipazione agli atti e all’attività della pubblica amministrazione non si parla da poco, ma bensì da quasi un ventennio, ovvero dalla entrata in vigore dalla legge n. 142/90 sulla riforma delle autonomie locali.
Inoltre, nelle risposte date ai vari interventi non si è parlato affatto di approcci condivisi ed inclusivi, tant’è vero che alcuni operatori non riuscivano a capire in cosa consistesse l’approccio bottom-up del piano e in che cosa questo si differenziasse dall’approccio top-down, (quest’ultimo concetto erroneamente richiamato per tutto l’arco della seconda serata di incontri con il temine "bottom-down", che non esiste). In altre parole, sono mancati quei riferimenti all’approccio collaborativo tipico della cultura e del clima "coalizionale" che si dovrebbe instaurare in questi casi. Chiaramente, per questi motivi, io non mi stancherò mai di ripetere che l’esito positivo di una pianificazione strategica, più che il risultato di una elaborazione tecnica imposta dall’alto, debba essere il risultato di un dialogo continuo tra istituzioni e collettività. Quindi, ancora una volta, faccio presente l’importanza della partecipazione e della definizione degli strumenti attraverso cui debba avvenire il dialogo, il tutto anche per compensare quel deficit di partecipazione, di comunicazione e di informazione, che storicamente si è formato tra le nostre comunità e gli enti locali di questa area.

PROGRAMMAZIONE
Altri elementi negativi emersi dai due partenariati sono stati la scarsa partecipazione e la mancanza di un piano delle attività adeguato alle peculiarità del territorio. Pertanto, pur giustificando parzialmente l’idea di voler definire meglio il piano delle attività in un secondo momento, ovvero attraverso i contributi che taluni cittadini ed operatori vorranno far pervenire, io personalmente ritengo che non sia affatto giustificato l’aver ignorato del tutto due settori fondamentali della nostra economia, quali sono l’agricoltura e la cooperazione internazionale, così come ritengo ingiustificato il fatto di non aver preso in considerazione il ricorso ad attività di marketing territoriale ed all’uso di animatori territoriali. Quindi, ritengo che sia molto grave l’aver imbottito il comitato tecnico di architetti, ingegneri e geometri, che sono pure indispensabili, e di non aver previsto nel medesimo la presenza di altri esperti come gli animatori dello sviluppo, i sociologi, i policy maker, gli esperti ed i conoscitori di economia e società locale, nonché il metodologo per la definizione dei Logical Framework.

AMBIENTE
Un altro aspetto che vorrei sottolineare è la mancata trattazione degli aspetti ambientali: sono mancati, infatti, tanto i riferimenti alle peculiarità del territorio e ai bisogni di tutela ambientale, quanto il riferimento a logiche di sviluppo sostenibile. A tal proposito, vorrei ricordarvi come uno dei propositi della Valutazione Ambientale Strategica previsti dalla direttiva n. 2001/42/CE è quello di realizzare una integrazione nell’ambito processo-percorso strategico della componente ambientale alle altre due componenti (società ed economia). In funzione di ciò, è opportuno definire da subito un quadro delle emergenze ambientali esistenti nel territorio, nonché recuperare quei partner "socio-istituzionali ambientali" che non erano presenti agli incontri, ma che pure esistono ed operano sul territorio di riferimento dell’Area Vasta.

INFORMAZIONE-COMUNICAZIONE-CONOSCENZA
Del tutto assenti sono state altresì le indicazioni di come dovrà esplicarsi il circuito mediatico tra Informazione Comunicazione e Conoscenza, e soprattutto di come questo circuito dovrà integrarsi con la Partecipazione, con l’Ambiente, con lo strumento informatico e quindi, con le attività proprie dei due comitati (tecnico e scientifico) di questo Piano Strategico. Pertanto, più preoccupante della inattività del sito web di riferimento (che ad oggi non è pienamente in funzione) è il fatto che molto probabilmente non si conosce l’importanza della comunicazione e, soprattutto, dei contenuti di un’altra direttiva connessa con la n. 2001/42/CE, la direttiva n. 2003/4/CE, sull’accesso del pubblico all’informazione ambientale.

Pertanto, data questa situazione, mi sia consentito di suggerire alcuni interventi che a mio avviso debbono essere fatti, per una efficace ed efficiente attività di pianificazione strategica:

- acquisizione immediata di nuove competenze (animatori dello sviluppo, i sociologi, i policy maker, gli esperti ed i conoscitori di economia e società locale, il metodologo, l’esperto di cooperazione internazionale);

- ampliamento ed estenzione della partecipazione a tutti i livelli ed a tutti i rappresentanti delle comunità rientranti nell’area vasta, soprattutto verso le categorie più deboli;

- realizzazione di un percorso di studi comune a tutti i membri del comitato tecnico e scientifico, al fine di acquisire quei saperi comuni necessari a colmare le eventuali diversità culturali e di formazione;

- compilazione di un glossario di riferimento affinché tutti intendano i medesimi significati nell’uso dei vocaboli tecnici, sia mentre si opera, sia mentre si fa informazione e comunicazione.

Infine, come già detto, io sono a completa disposizione per collaborare a tempo pieno e gratuitamente alle attività connesse con la pianificazione strategica di questa area vasta.

Cordialmente, Pietro Perrucci

venerdì 7 marzo 2008

1. La Governance. Il processo

L’insegnamento che ormai si può trarre da un trentennio di riflessioni sullo sviluppo locale sta nel passaggio da un tipo di approccio top-down, ad uno bottom-up e quindi condiviso, questi ultimi due basati appunto sul processo di “governance”. Si tratta di un processo che si fonda sulla concertazione (che peraltro non riguarda solo l’allocazione delle risorse, ma anche e soprattutto la definizione degli assi prioritari dello sviluppo del territorio), che è di tipo incrementale che si autoperpetua (giacché le risorse che lo alimentano – in particolare le risorse di natura fiduciaria – hanno la prerogativa di accrescersi quanto più vengono impiegate) ed ha un orizzonte di riferimento degli che è il lungo periodo, visto che incorpora la necessità del rispetto dei vincoli ambientali e sociali della riproducibilità delle risorse, il principio dell’inclusione e della partecipazione ai benefici dello sviluppo da parte di tutte le componenti sociali, in particolare quelle svantaggiate.
Quanto agli obiettivi, il processo di governance intende promuovere e interiorizzare dall’esterno le innovazioni a tutti i livelli, da quello strettamente produttivo alla sfera della riproduzione sociale ai modi di funzionamento delle istituzioni. Ovviamente, gli interessi in gioco sono primariamente quelli locali, pur tuttavia modellati attraverso il confronto e l’interscambio di esperienze con realtà sovralocali. Di qui la definizione del ruolo degli attori locali in termini non solo propositivi, ma anche ricettivi, così da evitare il rischio di un ripiegamento localistico.
Gli interventi attuati a seguito di un processo di governance sono fortemente integrati in un quadro complessivo di coerenze che considera anche gli eventuali effetti perversi delle azioni intraprese; essi sono inoltre multidimensionali, dal momento che si estendendono anche ai vari ambiti dell’organizzazione e del funzionamento societario.
I soggetti coinvolti in un processo di governance tendono a coincidere con l’intera cittadinanza, anche se un ruolo strategico è comunemente riconosciuto ai soggetti istituzionali, pubblici e privati (amministratori locali, responsabili dei progetti di sviluppo, rappresentanti delle parti sociali e delle realtà associative ecc.), ossia alla classe dirigente locale, la cui “qualità” diventa pertanto un aspetto di fondamentale importanza.
Per ciò che attiene alle finalità della governance, occorre dire che queste vanno oltre la valorizzazione delle risorse endogene, mirando, anche attraverso l’incorporazione selettiva di elementi esogeni e la partecipazione a reti translocali, a porre le premesse di uno sviluppo sostenibile e autopropulsivo e questa, n termini teorici, potrebbe considerarsi una prospettiva estremamente ambiziosa, che mette in gioco le principali risorse di democrazia di cui una società locale dispone.
Il processo di governance acquisisce così l’idea di un percorso collettivo, che misura il senso di responsabilità verso se stessi, verso i soggetti a rischio d’esclusione, verso le generazioni future, verso l’ambiente, verso il patrimonio di cultura civica. Si tratta, per usare un’espressione Jacques Delors, di un’avventura collettiva che promuove la cittadinanza e rinnova la vitalità democratica: qui il tema dell’inclusività, sta al cuore della governance, proprio perché la disponibilità di attori umani riflessivi e capaci di intelligibilità è il presupposto irrinunciabile di quel lavoro di invenzione istituzionale necessario a dare corpo a un progetto di sviluppo condiviso.
Quindi, per “governance” potremmo intendere un “nuovo stile di governo”, caratterizzato dal più alto livello di cooperazione e di integrazione tra attori pubblici e privati all’interno di reti decisionali, ovvero dall’insieme delle loro interazioni che danno luogo a scelte di governo, ma che si differenzia dal termine “government” che indica il governo o le scelte che promanano direttamente dalle istituzioni o dai vari enti locali, tipico di un approccio allo sviluppo di tipo top-down. Un approccio nella formulazione di piani, politiche, programmi e progetti, basato sulla costruzione del consenso e sulla partecipazione di tutti gli attori, per arrivare a definire una strategia condivisa di sviluppo socioeconomico locale.

Pietro Perrucci

lunedì 3 marzo 2008

Tre elementi per sostanziare lo Sviluppo Inclusivo: Democrazia Deliberativa, Autosostenibilità e Modello Reticolare

Come ho già detto più volte in altri contesti ed in altri articoli, da pochissimi anni a questa parte è possibile intravedere una nuova prospettiva per quell’idea di sviluppo socioeconomico basato sulla coesione sociale. Il ruolo sempre più ampio della partecipazione nei vari ambiti della programmazione, della progettazione, della pianificazione, della valutazione e dei processi di policy-making, e l’analisi dei vari strumenti “partecipativi” nella elaborazione delle politiche di sviluppo locale, hanno influito anche su quel pensiero economico che ha già concepito un tipo di sviluppo “pensato, progettato, costruito e condiviso”, e che ora si appresta a sostanziare un nuovo tipo di sviluppo che si può definire “inclusivo”.
Scusandomi con quanti hanno già letto quanto appena scritto, ritengo però che questa ripetizione, assieme ad altre che vi sono in questo articolo, rappresentino un passaggio fondamentale, sia per vedere in questo concetto un punto di approdo di tutta una evoluzione del pensiero economico sullo sviluppo locale, sia per individuare gli elementi che, a mio avviso, sostanzierebbero il concetto di sviluppo inclusivo, rendendolo organico ed autonomo rispetto ad altri concetti di sviluppo che lo hanno preceduto.
In questo articolo mi soffermo su quest'ultimo aspetto, ovvero sul fatto che nella vasta letteratura sullo sviluppo locale si possono facilmente individuare almeno tre diversi filoni di studio in cui è possibile ritrovare accenni allo sviluppo inclusivo. In un primo filone rientrerebbe tutta quella letteratura sui distretti e sui sistemi produttivi territoriali, che parla di inclusività quando si arriva a dimostrare che questi luoghi, oltre a porsi come sistemi di produzione economica, si pongono anche come luoghi produttori di conoscenza, di output simbolici e di beni intangibili, determinati dalla prossimità e dai legami relazionali, che coinvolgono tutti gli individui, le comunità, le imprese e gli enti locali esistenti sul territorio.
Un secondo filone di studi è quello che si rifà alla centralità urbana ed alla definizione delle città come ad un reticolo di quei legami relazionali tra individui, comunità, imprese ed enti locali, e che sono alla base di quei sistemi territoriali autoproduttori di conoscenza, di output simbolici e beni intangibili, ovvero di conseguenze che incidono a lungo su benessere e qualità del vivere in queste realtà territoriali.
Il terzo filone di studi è quello che è riguarda più da vicino lo sviluppo condiviso: in questo ambito, infatti, la prospettiva che caratterizza l’impegno dei vari attori in un processo di sviluppo si basa sul rispetto dei vincoli sociali (oltre che di quelli ambientali) e pertanto la partecipazione ai benefici dello sviluppo impone per definizione l’inclusività di tutte le componenti della società, ivi comprese quelle svantaggiate. In altre parole, a definire ed attuare forme di sviluppo condiviso sarebbero dunque le stesse istanze di inclusività che promanano dalle varie componenti sociali che partecipano alla definizione del processo di sviluppo, in maniera organizzata, sistemica, attraverso la loro rete di rapporti e relazioni.
Da questi tre filoni di studio, dunque, si possono ricavare almeno tre elementi che potrebbero sostanziare una definizione di sviluppo inclusivo. Tali elementi sono: la democrazia deliberativa, l’autosostenibilità, il modello reticolare

1. La democrazia deliberativa, ovvero gli strumenti della partecipazione
Se da un punto di vista più marcatamente sociologico si è portati ad affermare che “l’idea di democrazia è ancora in corso di invenzione ed è ancora aperta a una molteplicità di interpretazioni, nessuna definitiva” (Schattschneider, 1969), questo sembra che sia anche ciò che sta accadendo anche nell’ambito dei processi di policy-making che riguardono lo sviluppo socioeconomico. Qui, infatti, nuovi modelli organizzativi e produttivi del consenso hanno portato ad una sorta di “democraticizzazione” dei percorsi di crescita, così come testimoniato dal passaggio da un tipo di sviluppo top-down, imposto dall’alto, ad uno sviluppo di tipo bottom-up, cioè promosso dal basso della società.
Questo tipo di approccio, favorendo le piccole imprese, l’emancipazione dei lavoratori e i territori di società locali rimasti estranei alle traiettorie dello sviluppo della grande impresa, ha determinato in pratica l’inclusione in processi di sviluppo di realtà imprenditoriali e spaziali che, altrimenti, non avrebbero potuto avere un proprio ruolo, dando vita così una sorta di autodeterminazione da parte degli stessi attori nel definire i processi di sviluppo socioeconomico di un territorio.
L’aumento della partecipazione nella determinazione dei processi di sviluppo socioeconomico è stato possibile nel momento in cui ci si è accorti che il tradizionale contesto di democrazia rappresentativa, ovvero quello in cui è prevista una delega da parte dei cittadini a farsi rappresentare da altri in processi politico-decisionali, era entrato in crisi. Cosicché, alle tradizionali cause che già da un ventennio agiscono come fattori di crisi della democrazia rappresentativa (allontanamento dei cittadini dalla vita politica; progressiva riduzione della capacità di risposta dei governanti; insoddisfazione da parte dei governati), si è aggiunta anche quella progressiva svalutazione del ruolo svolto dai partiti politici come istituti di mediazione tra popolo e istituzioni, come portatori di domande e bisogni generali e quindi come organizzazioni capaci di definire processi di sviluppo socioeconomico.
In conseguenza della crisi del sistema della rappresentanza democratica, si sono fatte avanti sempre più frequentemente nuove istanze di democrazia più diretta. Autori come il Dahrendorf hanno sostenuto che “se si vuole restituire al popolo effettiva possibilità decisoria relativamente alle grandi questioni che lo riguardano allora varrebbe la pena di consultarlo direttamente…”. E tra i primi tentativi di ideazione e di attuazione di nuove istanze di democrazia diretta si affermarono nuovi strumenti di partecipazione al processo decisionale, oggi conosciuti con il nome di “deliberation day” (Akkerman, 2001), di “sondaggi deliberativi” (Fiskin, 1991, 2003), e di “arene deliberative” (L. Bobbio, 2002).
Per sondaggio deliberativo si intende una forma di sondaggio, su temi specifici, che consiste nell’usare un campione tradizionalmente rappresentativo in modo non tradizionale: in altre parole, le diverse centinaia di persone che rappresentano la popolazione d’una città vengono riuniti per due o tre giorni in un unico luogo, ricevendo informazioni preparate per loro da esperti di vari orientamenti, si riuniscono in piccoli gruppi “seminariali” dove tutti possono prendere la parola sotto la guida di moderatori addestrati, si confrontano con esperti e con i leader politici che rappresentano le varie opzioni in campo, per poi rispondere allo stesso questionario che era stato loro sottoposto all’inizio del periodo deliberativo.
Per deliberation day si intende in un allargamento del sondaggio deliberativo da un semplice campione di poche centinaia di persone a una parte rilevante della popolazione (magari oltre il 50%) e tutte queste persone verranno sottoposte ad un trattamento “deliberativo” in un determinato momento prima però di una consultazione (o votazione) ufficiale.
Le arene deliberative possono configurarsi come dei luoghi fisici all’interno dei quali tutti i diretti interessati ad una decisione s’incontrano e prendono parte, in modo strutturato (cioè con delle regole prefissate), ad un processo collettivo di decisione. Con questo strumento si opera il superamento delle tradizionali esperienze di partecipazione o di consultazione, dove si mantiene una netta distinzione tra istituzioni che propongono e cittadini che vengono ascoltati. Nelle arene deliberative, infatti, il compito di decidere è affidato all’interazione, paritaria e organizzata, fra tutti i soggetti coinvolti, siano essi cittadini comuni, organizzazioni o pubblici poteri. Un esempio rappresentativo di arena deliberativa è stata l’approvazione del “bilancio partecipativo di Porto Alegre” in cui le consultazioni sono avvenute sulla base di uno schema decisionale abbastanza elementare, ovvero “abbiamo dei soldi da spendere, vogliamo utilizzarli: per costruire un parco? per rimodernare una scuola? per rifare il manto stradale? o per migliorare l’illuminazione pubblica?”
L’affermarsi di tali strumenti è stata tale che alcuni hanno incominciato a parlare di un passaggio dal “paradigma della rappresentanza”, cioè èlites in competizione tra loro cercano di conquistarsi correttamente il favore popolare attraverso libere e ricorrenti elezioni politiche, verso il “paradigma deliberativo”, secondo cui la volontà popolare non può più concepirsi soltanto attraverso libere elezioni, ma che si forma anche attraverso altri strumenti ugualmente importanti fatti di attivi interventi popolari (Damiani, 2007).
Secondo questa “logica deliberativa” della democrazia, il coinvolgimento attivo dei cittadini non si limita al momento elettorale: canali e forme aggiuntive di partecipazione debbono irrimediabilmente rendersi disponibili per poter formare le decisioni in modo democratico ed esercitare il controllo sui governanti. Tuttavia, queste nuove modalità di azione politica non rappresentano un vero e proprio superamento della democrazia rappresentativa; si presentano, più che altro, come specifiche modalità di governo che si affiancano alla democrazia della rappresentanza ed hanno come obiettivo il passaggio da una forma a “bassa intensità” democratica ad una forma a più “alta intensità” democratica.
Sotto questo aspetto, il concetto di “democrazia deliberativa” si basa sull’idea che la legittimazione di un ordinamento dipende dalla capacità dei cittadini di discutere gli affari pubblici su una visione generale della società, ritenendo perciò irrinunciabile, sia un elevato tasso di partecipazione alla vita politica e all’autonomia morale dei cittadini medesimi, sia esperienze di governance nel senso più stretto del termine, in cui partecipano una pluralità di soggetti (pubblici), con un unico comune obiettivo: “produrre politiche pubbliche ad elevato tasso di “inclusività politica” intendendosi per inclusività politica la capacità di saper “includere”, cioè coinvolgere, all’interno del processo decisionale tutti gli attori sopra la testa dei quali, irrimediabilmente, ricadrà il peso della decisione che s’intende adottare”.
Pertanto, in ragione di quanto detto, si è portati a pensare che sempre più spesso si sentirà parlare di democrazia deliberativa nell’ambito dello sviluppo locale, ovvero di una forma allargata di governance, ad alto tasso di inclusività, che nello scegliere tra più alternative, punta al coinvolgimento dei vari attori e pretende una soluzione condivisa al problema comunemente percepito in un contesto socioeconomico. Pertanto, nell’ambito dello sviluppo locale il senso terminologico della parola “deliberare” non sarà più quello tipico del vocabolario italiano in cui si intende prendere una decisione dopo un accurato esame delle argomentazioni favorevoli e contrarie, ma si avvicinerà molto di più al significato terminologico del vocabolo inglese “deliberation”, che significa “un processo dialogico che riconosce alla discussione il ruolo fondamentale nel trovare delle ragioni che siano persuasive per tutti” (Cohen, 1989, 1998).

2. L’autosostenibilità
Si è accennato in precedenza che un processo di sviluppo debba basarsi non solo sul rispetto dei vincoli sociali, ma anche su vincoli di natura “ambientale”. Pertanto, affinché un tipo di sviluppo possa essere definito davvero inclusivo, oltre richiedere l’introduzione di strumenti decisionali “deliberativi” che tengano conto delle relazioni che si sviluppano tra individui che compongono le comunità locali, occorre che richieda altresì l’introduzione di riferimenti teorici, approcci, e strumenti decisionali, che aiutino a ritessere le relazioni non più soltanto tra individui, ma anche tra individui, comunità ed ambiente. E sotto questo aspetto uno sviluppo locale di tipo “autosostenibile” contiene la visione socio-politica di nuove forme di partecipazione, di democrazia e quindi di inclusività che si realizzano sotto diversi aspetti (Magnaghi, 2001).
Per “sviluppo locale autosostenibile”, si intende un “paradigma normativo” che, insistendo sulla “valorizzazione delle risorse territoriali” e sulla “identità locale”, si caratterizza per due aspetti peculiari: da un lato, mira alla ricerca e alla costruzione di nuove regole insediative, urbanistiche, sociali, produttive, economiche ed ambientali, che risultino di per sé produttive di “omeostasi locali” e di “equilibri di lungo periodo”, nelle relazioni che si sviluppano tra individui comunità ed ambiente; dall’altro, presuppone un doppio mutamento culturale, tanto nello studio dello spazio – dove si passa dalle descrizioni funzionali di un territorio ad descrizioni “identitarie” di quella dotazione di caratteri socioeconomici del territorio – quanto al riferirsi ad approcci multidisciplinari e multisettoriali di sostenibilità, che presuppongono “il passaggio dalla sostenibilità alle diverse forme di sostenibilità”.
In questo passaggio si va dunque da un concetto che, come si è visto, intende l’attivazione di regole virtuose dell’insediamento umano atte a produrre “autosostenibilità”, ad altri concetti di sostenibilità, quali:
- la sostenibilità territoriale, la capacità di un modello insediativo di promuovere continuamente “processi di nuova territorializzazione”, o “processi di riterritorializzazione”;
- la sostenibilità economica, la capacità di un modello di crescita di creare valore aggiunto territoriale attraverso le sinergie tra economia ambiente e comunità locale;
- sostenibilità politica, la capacità di una comunità locale di dotarsi di un “autogoverno”, rispetto alle relazioni con sistemi decisionali esogeni e sovraordinati;
- sostenibilità sociale, capacità di generare un elevato livello di integrazione degli attori nel sistema decisionale di una comunità locale, soprattutto di quelli più deboli per conseguire equità sociale e di genere.
Nell’ambito dello sviluppo locale autosostenibile, dunque, le forme di sostenibilità che fanno maggiormente riferimento agli aspetti inclusivi sono l’approccio di sostenibilità politica e l’approccio di sostenibilità sociale.
Laddove gli abitanti sono stati espropriati da ogni decisionalità sul territorio in cui abitano e quindi sono rimasti sostanzialmente estranei al loro ambiente ed al loro territorio, si manifesta la necessità di fare in modo che quelle stesse comunità su cui ricadono conseguenze positive e negative di ogni processo di sviluppo possano partecipare in modo sempre più allargato ed in maniera sempre più diretta, a decidere del loro futuro. Così, il nodo politico della sostenibilità riguarda tanto i modi di partecipazione alla determinazione dello sviluppo socioeconomico, quanto ai modi di appropriazione di quel “valore aggiunto” che si contribuirebbe a creare sul territorio da parte di una comunità locale proprio con lo sviluppo socioeconomico. Nell’ambito della partecipazione allo sviluppo inclusivo, vige il principio in base al quale non ci potrebbe essere sostenibilità politica in assenza di un rapporto diretto fra la crescita della società locale, gli istituti di democrazia, le reti civiche, e la capacità di contrattazione tra attori, capacità che dovrebbe generarsi all’interno di quella fitta rete di rapporti e relazioni non gerarchiche.
Per ciò che attiene invece i modi di appropriazione di quel “valore aggiunto territoriale” significa, da un lato, dar forza ai soggetti che potrebbero produrre questo valore aggiunto e dall’altro, accrescere le forme di “autogoverno” delle società locali, ovvero dar spazio al pluralismo culturale, riconoscimento delle differenze, gestione della complessità e gestione dei conflitti che inevitabilmente si generano.
Il problema che più spesso si è presentato nelle esperienze di sviluppo locale è stato che non tutti gli attori hanno avuto un ruolo importante e solo quelli che avevano accesso alla politica, all’informazione, alle risorse culturali ed economiche, alle innovazioni, alle reti di comunicazione telematica, si sono ritrovati ad usufruire dei benefici. Sicché gruppi sociali come le donne, i disoccupati, gli anziani, i giovani, gli immigrati e (per certi aspetti) diverse categorie di imprese ed imprenditori, si sono ritrovati ad essere emarginati o esclusi dalla partecipazione, tanto nella definizione, quanto dalla ripartizione delle risorse generate dai processi di sviluppo socioeconomici. Per ovviare a questo inconveniente, l’approccio di sostenibilità politica, che è parte del più ampio principio di autosostenibilità, impone che gli enti locali si facciano carico di garantire una equa partecipazione, sia nella definizione, sia nell’accesso ai benefici ed alle risorse generatesi con lo sviluppo.
Così, è stato proposto da alcuni (Gatti, 1990) di imporre un sistema di indicatori che verifichino la composizione sociale degli attori, che misurino le capacità degli attori più deboli, che accertino la messa in atto di azioni volte ad incrementare la capacità di attori deboli e la predisposizione di sistemi di ascolto reciproco e di accesso alle informazioni, e soprattutto, che valutino l’autogoverno di un sistema locale attraverso indicatori come il grado di strutturazione, il grado di integrazione, il grado di autonomia, il grado di efficienza ed il grado di innovazione.

3. Il modello reticolare
La rete è di per sé uno strumento che genera inclusione e quindi contribuisce enormemente alla realizzazione di quella coesione sociale che è alla base dello sviluppo condiviso e quindi anche dello sviluppo inclusivo. Pertanto, se si assume che la qualità di un territorio possa essere determinata da un accettabile grado di coesione sociale e se si accetta che la coesione sociale si determina anche con il ricorso a strumenti di democrazia deliberativa sullo sfondo dell’autosostenibilità, ovvero con il ricorso ad un sistema di regole che porta alla produzione di “omeostasi locali” e di “equilibri di lungo periodo”, si può senz’altro assumere che la qualità del territorio debba essere anche una conseguenza dello sviluppo inclusivo. Questo perché è abbastanza facile intravedere nella partecipazione di tutti gli attori allo sviluppo, nelle sinergie attivabili tra i diversi attori e nello stesso contesto di interdipendenza sistemica tra attori, comunità locali ed ambiente, come un tutt’uno che trova nel territorio un collante ideale ed identitario, in cui “fare società locale”.
Una tale rappresentazione delle realtà territoriali non potrebbe essere possibile se non attraverso l’unico strumento che al momento possa consentire allo sviluppo inclusivo di generare qualità del territorio: il “modello reticolare”.
Per modello reticolare si intende un’organizzazione ed una configurazione del territorio paragonabile ad un insieme quasi infinito di collegamenti tra i vari elementi soggettivi ed oggettivi che lo compongono, consentendo ad ognuno di essi di connettersi, di interagire, di partecipare, di comunicare, di informare e di essere informato, di rappresentare e, soprattutto, di essere parte di un sistema, il tutto grazie allo strumento della rete ed alla sua versatilità.
Secondo una delle prime definizioni elaborate nell’ambito dello sviluppo locale, la rete è uno strumento “… in grado di descrivere modalità anche molto diverse di rapporti tra unità produttive e di organizzazione spaziale della produzione, … [è] … in grado di realizzare processi di apprendimento collettivo fondati sulla combinazione di conoscenze e saperi apportati da vari partner…” (Maillat, Crevoisier, Lecoq, 1991). Stando a questa rappresentazione, dunque, il modello reticolare definisce un territorio secondo un’articolazione che è a diverse dimensioni:
- la dimensione economica, che propone una organizzazione che va oltre la dicotomia impresa/mercato;
- la dimensione cognitiva, nel senso che la rete è depositaria di processi di apprendimento collettivo;
- la dimensione normativa, intesa come complesso di regole di condotta.
Da questa rappresentazione emerge una interpretazione per i concetti di tempo e di spazio delle relazioni: per quanto riguarda il tempo, la rete consente rapporti di durata superiore a quelli in cui si iscrivono le normali relazioni; sotto l’aspetto spaziale, la rete supera quel presupposto della necessità di una prossimità fisica tra gli attori nella dinamica relazionale, pur non sminuendo, ma anzi valorizzando, il fatto di essere ugualmente il prodotto di un contesto territoriale. E per l’elevato numero di relazioni che si possono sviluppare attraverso la rete, si è arrivati addirittura a parlare di “capitale relazionale” che gli attori stessi sviluppano durante le loro frequentazioni.
Quanto detto in questo quasi “primordiale” concetto rete, ci consente di cogliere meglio il senso dell’espressione “qualità del territorio”, soprattutto come attesa conseguenza dello sviluppo inclusivo. In quanto risultato non già di elementi economico-qualitativi, ma di elementi qualitativi-organizzativi, che riguardano sia la strutturazione interna, sia la capacità di interiorizzare risorse ed informazioni disponibili nell’ambiente esterno, ci sembra possibile sostenere che un modello reticolare possa essere esso stesso produttore di qualità del territorio dal momento che è in grado di
- progettare
- mobilitare le risorse
- definire obiettivi collettivi
- tutelare interessi diffusi
- generare e riprodurre risorse fiduciarie
- accrescere le opportunità degli operatori
- far cooperare gli attori per competere
Inoltre, per la sua capacità di coinvolgere tutti, il modello reticolare diventa altresì parte essenziale dello sviluppo inclusivo, e che per questa elevata capacità di coinvolgimento si può altresì sostenere che lo stesso sviluppo inclusivo finisce dunque per generare anche coesione sociale.