Si è detto in precedenza che una più attuale e condivisa definizione di pianificazione strategica deve tener conto di quanto altro è stato fatto dagli anni ’90 fino ad oggi, soprattutto per la possibilità di implementare la metodologia di base con le esperienze di programmazione e di pianificazione. Infatti, nelle esperienze di maggior successo per la pianificazione strategica, il metodo operativo adottato non è stato solo quello di guardare solamente alla pianificazione esclusivamente impostata in chiave "architettonica, urbanistica e territoriale", ma è stato bensì quello di guardare anche alla "tutela ambientale" ed alla "programmazione socioeconomica".
Il fatto di affiancare la questione della tutela ambientale e le attività di programmazione socioeconomica nell’ambito di un processo di pianificazione strategica è stato perciò un elemento di successo ed in ciò ha contribuito senza dubbio il coinvolgimento di nuove figure professionali nei gruppi di lavoro, tra i quali spicca quella del "policy maker", che si occupa di "policy making" e di "policy analysing".
In genere, tra le attività più tipiche che un policy maker svolge vi sono quelle legate all'esecuzione di piani, politiche, programmi, progetti, attività di cooperazione e di organizzazione (elaborazione e formulazione, attuazione e implementazione, finalizzazione e attuazione, valutazione e monitoraggio, revisione ed adattamento, partecipazione e diffusione delle informazioni). Tuttavia, nell’ambito della pianificazione strategica, i policy maker sono stati usati prevalentemente per preparare una base culturale comune e condivisa a tutti gli operatori, attori, portatori di interessi e rappresentanti istituzionali, per poi poter gestire al meglio quei processi e percorsi di governance e di partnership, per gestire la partecipazione, per mediare tra i diversi ambiti di policy (sociale, economico, ambientale, territoriale, politico, istituzionale), per la valutazione dei risultati e per la definizione degli obiettivi (operativi, specifici e globali).
Ma dove il policy maker sembra essere riuscito meglio è stato nella gestione dei processi di programmazione socioeconomica; questo perché sono molteplici e variegati i riferimenti culturali che sono alla base della formazione didattico-professionale di un policy maker.
Sempre più spesso, il policy maker tende ad essere paragonato ad un "metodologo" per le sue molteplici conoscenze e per il fatto di riuscire ad articolare molto bene la sua attività in fasi, che in genere sono:
- partecipazione degli operatori;
- analisi della problematica, strutturazione del problema e analisi del suo ambito/contesto;
- selezione degli obiettivi e predispone adeguati indicatori per valutarne il loro conseguimento;
- determinazione delle scelte e loro implementazione;
- distinzione dei risultati in realizzazioni quantitative, esiti ed effetti, impatti ed utilità;
- valutazione i risultati in base ai criteri di Attinenza/Pertinenza/Rilevanza, Efficienza, Efficacia, Utilità/Sostenibilità, Coerenza Interna ed Esterna;
- creazione di un efficace sistema di comunicazione per l’accesso alle informazioni ed alla conoscenza;
- valutazione dei risultati;
- adattamento e modifica delle scelte di pianificazione, sulla base delle valutazioni eseguite in precedenza.
Ma più di ogni altra cosa, a determinare il successo dei policy maker nell'ambito della programmazione socioeconomica è stata quella pluralità di schemi operativi cui si rifanno i policy maker: qui, a titolo semlificativo citiamo quelli che io chiamo i Cicly di Policy, più specificatamente adottati per il monitoraggio e la valutazione dei processi e per la partecipazione.
Ovviamente, a determinare il successo dei policy maker concorrono anche tutta un'altra serie di fattori che meritano di essere approfonditi e che, prima o poi, saranno oggetto di futura trattazione.
Pietro perrucci
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