Grazie ad un percorso di studi nell’ambito del lavoro sommerso si è potuto constatare che nel nostro ordinamento giuridico si sono succeduti fino ad ora almeno quattro modelli di emersione - tutti posti a fondamento delle varie politiche di contrasto al fenomeno del lavoro irregolare - e che nessuno di questi è riuscito a risolvere questo problema. Infatti, la quota di economia sommersa resta sempre molto elevata rispetto all’economia ufficiale (20-25% del PIL) e questo malgrado sia la molteplicità di soggetti istituzionali coinvolti nel definire le azioni di contrasto (Unione europea, Parlamento, Governo e regioni), sia la notevole produzione legislativa che è stata messa in atto.
Sulla inefficacia di tali modelli di emersione, vi sarebbe un doppio livello di inefficienza. Il primo riguarda l’effettività delle norme formalmente in vigore nella lotta al lavoro irregolare: sotto questo aspetto, è possibile parlare di un consistente sfasamento tra diritto e realtà dei fatti, che farebbe emergere la necessità di continuare a razionalizzare e/o ottimizzare le politiche di contrasto al lavoro prestato irregolarmente e ciò intervenendo sia sul piano più strettamente giuridico-legislativo, sia sul piano più strettamente sanzionatorio. Il secondo, riguarda l’efficacia del diritto vigente, laddove le politiche di contrasto al lavoro sommerso non sembrano essere adeguate, vicine, alla realtà sociale in cui vengono calate.
Da questo doppio livello di inefficienza è possibile ricavare una riflessione e cioè che in Italia, la lotta al lavoro regolare la si è affrontata più da un punto di vista giuridico legislativo e meno da un punto di vista politico-sociale. Infatti, possiamo dire che alla luce di quanto osservato, tutti i modelli di emersione adottati sono carenti di una “analisi di contesto” e di approcci strategici; per cui, pur arrivando ad indicare nuove elaborazioni filosofico-concettuali (come nel caso del concetto di “lavoro dignitoso” dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro), è mancato un vero e proprio piano strategico che affrontasse contemporaneamente sia la lotta al lavoro sommerso, sia la lotta al grave problema della disoccupazione che, come si sa, è il principale fattore che genera lavoro sommerso.
In altre parole, se si è compreso che da un punto di vista legislativo per sconfiggere il lavoro regolare c’è bisogno della più ampia e corretta logica della promozione all’adempimento contributivo e fiscale, da un punto di vista più politico più sociale c’è bisogno di interventi che incidano più direttamente sulle cause che generano lavoro sommerso e quindi su interventi alla lotta per la disoccupazione.
Per questo, mi auspico che le istituzioni che operano in questo settore comprendano finalmente che ciò che manca nel nostro paese non è tanto un nuovo modello di emersione dal lavoro e dall’economia sommersa, quanto è un vero e proprio “Piano per l’occupazione”.
Sotto questo aspetto, dunque, l’emersione non si identificherebbe più soltanto come una questione meramente giuridica e quindi non si esplicherebbe più come un processo di migliore approssimazione (sotto il profilo qualitativo) a quelli che sono i principi della legalità e della sicurezza sociale del nostro ordinamento, ma si identificherebbe soprattutto come politica sociale (come già detto), nell’obiettivo più ampio della coesione economica e sociale, obiettivo cui dovrebbe finalizzarsi ogni modello giuridico-legislativo di contrasto al lavoro sommerso.
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